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Filosofia: Socrate e Platone

Ultimo Aggiornamento: 29/03/2010 17:18
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29/03/2010 17:18

COMPENDIO DI FILOSOFIA : SOCRATE e PLATONE




Socrate (469 a.C.-399 a.C.)

Socrate nacque ad Atene nel 469 a.C. da Sofronisco, scultore, e da Fenarete, levatrice. Si avvicinò giovanissimo alla filosofia e conobbe Anassagora ed i Sofisti.
Combatté in varie battaglie (Potidea, Delo, Anfilopi) dimostrando particolare coraggio e forza d'animo.
Si dedicò quindi completamente alla ricerca filosofica e, in breve tempo, ebbe molti discepoli (fra cui Platone). nel 399 a.C. Anito, Meleto e Licone accusarono Socrate di corrompere i giovani di Atene e di introdurre la credenza in nuovi dèi.
Al processo, dopo una difesa appassionata da parte di Socrate (ci verrà tramandata da Platone nella Apologia di Socrate), venne condannato a morte. Dopo un mese di detenzione, durante il quale Socrate rifiutò di fuggire per non trasgredire la legge, la sentenza venne eseguita: fu condannato a bere la cicuta.


Socrate non scrisse nulla e tutto ciò che sappiamo di lui lo dobbiamo in massima parte a Platone (che fa di lui il personaggio principale di quasi tutti i suoi Dialoghi) e a Senofonte (cfr. I Memorabili).


Socrate non scrisse nulla volutamente. Perché?

Perché la filosofia come lui la intendeva non si poteva limitare a qualcosa di scritto, visto che nessuno scritto - secondo Socrate - può stimolare alla ricerca ma può solo comunicare una dottrina. In altri termini, la filosofia era vista da Socrate come un dialogo continuo, un esame incessante di sé e degli altri e non un insieme di teorie preconfezionate.
E lo scopo della filosofia è quello di aiutare l'uomo a venire in chiaro a se stesso, portarlo al riconoscimento dei suoi limiti e renderlo giusto, cioè solidale con gli altri. Perciò Socrate prese come suo motto ciò che era scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, e cioè gnoti sauton, "conosci te stesso". E "conosci te stesso" vuole appunto dire: riconosci in primo luogo quello che sei, e cioè un uomo, per cui un abisso ti separa dal divino!
Fu questa, forse, la più alta forma di ammonimento da parte di un dio greco. Questa massima, la più conosciuta del pensiero greco, non perse mai il suo valore ed ecco spiegato perché Socrate poté accoglierla come sua (anche se per lui avrà anche un'altra accezione, come vedremo).

Per conoscere noi stessi, la prima condizione è quella di riconoscere le proprie possibilità ed i propri limiti, cioè liberarci dalla vana presunzione di sapere tutto (come sostenevano ad es. i Sofisti). Per arrivare a ciò, Socrate si serviva di un particolare metodo che ha i suoi punti salienti nella ironia e nella maieutica.


L'ironia (dissimulazione, finzione) è quell'insieme di domande, interrogativi, provocazioni paradossali di cui Socrate si serviva per distruggere la presunzione di sapere del discepolo, per far quindi sorgere il dubbio sulle proprie conoscenze riconoscendone la fragilità, e per impegnare successivamente il discepolo nella ricerca della verità libero ormai da pregiudizi e illusioni.


Dopo aver distrutto il sapere fittizio del discepolo, Socrate non vuole però che egli si appropri delle teorie eventuali del maestro. Socrate non vuole dare al discepolo una sua dottrina, bensì lo vuole stimolare nella ricerca della sua, personale verità. Questo modo di procedere è la maieutica, l'arte della levatrice, che la madre di Socrate, Fenarete, esercitava. come la levatrice aiuta le donne a partorire i figli, così Socrate vuole aiutare il discepolo a partorire da solo la verità.


La ricerca della verità è, al tempo stesso, la ricerca del vero sapere e del modo migliore di vivere. Infatti l'uomo non può che tendere a scoprire quello che è e quello che deve fare per vivere nel modo migliore. Ma questo vuol dire che colui che conoscesse il bene, dovrebbe agire di conseguenza e vivere secondo virtù. Si tratta soltanto di sapere che cosa è veramente il bene
.


Il bene per l'uomo è ciò che fa sì che egli diventi quello che la sua natura più profonda esige. Se io rifletto, potrò giungere a scoprirlo, per cui è proprio il sapere, la conoscenza, che permette all'uomo di conoscere se stesso e quindi di conoscere qual è il modo più adatto per vivere felice. Colui che sa - secondo Socrate - sa far bene i propri calcoli e sceglie in ogni caso la cosa migliore per lui, indicata dai greci col termine di areté. La vera felicità pretesa da Socrate è quella duratura, la quale non può essere la felicità del corpo, che è caduco, ma soltanto quella dell'anima, che è immortale. Il motto delfico vorrà allora dire, per Socrate, "conosci la tua anima", "conosci la tua psyché", giacché l'uomo, nella sua essenza più profonda, non è altro che la sua anima. E' proprio nel pensiero di Socrate che il tema dell'anima esce dal contesto religioso - caratteristico di Orfismo e Pitagorismo, concezioni mitico-religiose di quei tempi - per diventare, attraverso un processo di moralizzazione e di individualizzazione, il fulcro del discorso morale.



Se "compiere ciò che è proprio a ciascuno" è per Socrate il principio di ogni atto morale, con questa affermazione egli da un lato si ricollega ad un qualcosa che era profondamente radicato nella concezione del tempo (l'areté come eccellenza, abilità, capacità) ma dall'altro, con lui per la prima volta, si rende indipendente dal giudizio degli altri, dalla gloria e dall'onore. ecco la grande novità socratica: non è più l'opinione degli altri, sia pure quella dei buoni e dei giusti, che deve determinare l'uomo.


Ciascuno deve invece "conoscere se stesso" e sviluppare ciò che è "proprio" della sua natura, senza preoccuparsi delle cose altrui, finché non sia in chiaro con se stesso. In breve, l'uomo veramente libero è colui che usa il proprio corpo e le cose senza esserne schiavo, è dunque colui che sa dominare se stesso, dirigere i propri impulsi e istinti senza negarli ma usandoli senza eccedere.
Colui che al contrario diventa schiavo dei suoi istinti, lo fa perché, secondo Socrate, non ha riflettuto abbastanza, non ha conosciuto qual è la verità e la felicità. "Pecca" insomma per ignoranza, giacché crede che quelle cose siano per lui le più adatte. Un errore di giudizio è quindi alla base di ogni colpa e di ogni vizio. Al contrario, se uno sapesse veramente qual è la cosa più giusta, si comporterebbe, per Socrate, di conseguenza, e non "peccherebbe" più... perché non ci si può rendere schiavi, direbbe Socrate, di ciò che non ha valore.

Quello che Socrate sostiene è un ideale molto alto, che forse è accessibile soltanto a pochi. Tuttavia la sua è una vera e propria svolta rispetto ai Sofisti. Se infatti in precedenza alla domanda "che cos'è la virtù", si era risposto nei modo più diversi: è il coraggio, è la giustizia, è la forza, oppure non esiste, ora, con Socrate, si vuole conoscere qual è l'elemento universale, il Bene, che fa del coraggio, della giustizia, della forza altrettanti beni. A questo problema, come sappiamo, Socrate non giunse a rispondere.

E' celeberrima la sua affermazione a riguardo: io so di non sapere! (cfr. Apologia, 21-23 c).
Eppure tutto ciò non lo porterà né verso lo scetticismo né verso il nichilismo.


In primo luogo perché egli aveva una fede assoluta nel significato di una azione condotta in conformità a ciò che si ritiene sia il bene: si ricordi che Socrate ha suggellato questo insegnamento con la sua morte. In secondo luogo, egli era convinto che l'uomo deve impegnarsi a fondo nella conoscenza, anche se non potrà raggiungere un sapere perfetto
.

E' questo il mezzo migliore per raggiungere la felicità, giacché "una vita senza ricerca non è vita umana" (Apologia, 38 a).


Lo stile oratorio di Socrate è scarno, secco e quasi familiare, modulato a seconda dell'interlocutore.

Il punto di partenza del discorso socratico è la cosiddetta "ironia socratica", ossia la totale autodiminuzione, "io non so, tu sai". Così inizia anche "L'apologia": si pone la domanda "che cosa è x ?" e l'interlocutore cade nel tranello e risponde, sentendosi superiore a Socrate. Socrate, come abbiamo detto parlando di Senofonte, parla di argomenti noti all'interlocutore: se ad esempio parla con un generale gli chiederà "che cosa è il coraggio?".

Quello risponderà, per esempio, dicendo che il coraggio è il non indietreggiare mai.
Allora Socrate interverrà dicendo che quello non è coraggio, bensì pazzia.

La critica diventa stimolo per l'interlocutore a fornire una seconda risposta meglio articolata: il gioco può andare avanti a lungo e spesso rimane aperto.
Questo metodo viene detto "maieutico": Socrate diceva di fare lo stesso lavoro della madre, la quale era ostetrica: lei faceva partorire le donne, lui le anime.


Come le ostetriche valutano se il neonato è "buono", così Socrate valuta se le idee, le definizioni sono buone.


Non tutti gli interlocutori erano intelligenti e riconoscevano i propri errori: spesso preferivano evitare Socrate. Da un interlocutore Socrate fu anche denominato "torpedine" in quanto l'incontro con Socrate risulta scioccante perché ribalta le concezioni di chi era convinto di sapere e dimostrava che in realtà non sapeva.
Socrate stesso si paragonava ad un moscone che stimola il cavallo: lui stimolava gli uomini a ragionare.
Socrate con il processo dell'autodiminuzione afferma di non sapere nulla, mentre sostiene che i sofisti sappiano tutto: dice che forse l'educazione che impartisce lui è inutile rispetto a quella sofistica, ma senz'altro è più importante.

Le calunnie nei confronti di Socrate hanno avuto inizio quando lui si definiva sapiente in quanto l'oracolo di Delfi gli aveva detto che era il più sapiente tra gli uomini. Lui era rimasto sconvolto da tale affermazione e non riusciva a crederci: allora cominciò a girare per Atene per vedere se trovava persone effettivamente più sapienti di lui.


Dunque si recò da coloro che si ritenevano sapienti: politici, poeti, artigiani. Socrate si accorse che tutte e tre le categorie erano convinte di sapere, ma in realtà non sapevano niente: i politici erano i peggiori di tutti non in quanto politici (Socrate stesso, se vogliamo, era un politico perché svolgeva la sua attività in pubblico) ma in quanto non capaci di insegnare il loro sapere: un vero sapiente deve spiegare ciò che sa: anche i politici migliori (Pericle) non sanno trasmettere il loro sapere.


Lo stesso era per i poeti, che a partire da Omero erano considerati sapienti ed educatori: Socrate li biasima sia perché dicono assurdità, sia perché il loro non è un sapere, ma una forma di "follia ispirata": era la divinità che parlava per bocca loro.
I meno peggio risultarono essere gli artigiani, che almeno sapevano fare diverse cose di utilità pubblica: la loro è una "tecnè", ossia una sapienza pratica.



Però anche gli artigiani avevano i loro difetti: erano sì competenti nel loro settore, ma peccavano di presunzione perché erano convinti che la loro conoscenza fosse universale ed illimitata, anziché limitata. Inoltre essi agivano senza pensare e ponderare. Socrate arrivò alla conclusione che l'oracolo di Delfi aveva ragione: lui stesso è il più sapiente, pur sapendo di non sapere. Il suo non va interpretato come atteggiamento di rinuncia alla ricerca della verità, ma come segno di modestia intellettuale: è proprio il fatto di essere consapevoli della propria conoscenza che spinge l'uomo a sforzarsi di raggiungere la conoscenza; se si è convinti di sapere già tutto non ci si sforzerà di migliorare.


Tra le varie accuse che vengono mosse a Socrate c'è anche quella di corrompere i giovani nella piazza rendendoli peggiori: lui ribatte a questa accusa dicendo che non avrebbe motivo di fare ciò. Infatti se corrompesse i giovani finirebbe per vivere in una città di giovani corrotti, il che si ritorcerebbe contro lui stesso. Va senz'altro ricordato il cosiddetto "intellettualismo etico" di Socrate: secondo lui nessuno può compiere il male sapendo effettivamente di compierlo: nessuno potrebbe mai fare del male volontariamente. Un rapinatore rapina non pensando di fare del male, ma di fare del bene: è un errore intellettuale ritenere bene ciò che è male. E' un atteggiamento tipicamente cristiano-cattolico che si possa scegliere tra bene e male indistintamente.


Dunque Socrate introducendo l'intellettualismo etico dimostra di aver agito per il bene della sua città. E' Socrate che ha scoperto il concetto moderno di anima (yuch): in precedenza significava "soffio vitale", ciò che fa vivere le cose; il termine yuch assunse poi il significato di "immagine nell'Ade", un'esistenza depotenziata. Per gli Orfici significava "demone". A partire da Socrate fino al giorno d'oggi l'anima è diventata il nostro io: ci identifichiamo con l'anima. Secondo Socrate possiamo dividere i beni ed i mali in tre categorie a) dell'anima b) del corpo c) dell'esterno. Il corpo è lo strumento nonché la prigione dell'anima
.

Il denaro, per esempio, è un bene esterno. In alcuni frangenti sembra che Socrate (e anche Platone) rifiuti i beni materiali e del corpo, scegliendo quelli dell'anima; in altre occasioni pare che possano essere accettati entrambe
Socrate, per esempio, pare che non disprezzasse il vino.


Quest'ambiguità tra beni del corpo e beni dell'anima può essere spiegata affermando che i beni son tutti beni finché non entrano in conflitto con altri: la ricerca del piacere fisico diventa un male quando la si antepone alla ricerca di quello intellettuale
.


Questo non vale solo per i beni, ma anche per il rapporto tra anima e corpo: il corpo per Socrate e Platone non va disprezzato, anzi va apprezzato perché serve all'anima.
Interessante è il concetto socratico di ingiustizia: essa non danneggia chi la subisce, ma chi la commette. La giustizia infatti dà un senso di piacere interiore e chi è ingiusto perde questo piacere, mentre chi subisce l'ingiustizia continua a provarlo. Questo vale anche per Platone
.

Tra le cose che Socrate dice di non sapere vi è la conoscenza dell'aldilà, di cosa c'è dopo la morte (Platone dirà di essere in grado di dimostrare l'esistenza di un aldilà).
Per lui non è che se si vive una vita giusta si sarà premiati: si è già appagati dal vivere giustamente, la felicità che si prova perché si è giusti è già una sorta di premio: Socrate dice che magari potrebbe esserci una vita ultraterrena, ma lui non lo sa.

Tra le varie accuse rivolte c'era anche quella di ateismo e di empietà:
Socrate infatti credeva nei demoni, che lui proclamava "figli delle divinità". Lui dimostra che è un'accusa sbagliata dicendo che se crede nei demoni che sono figli delle divinità, è ovvio che creda anche nelle divinità: perché ci sia il figlio (demone), ci devono anche essere il padre e la madre (le altre divinità).


Ma che cosa era questo demone?


Abbiamo due testimonianze divergenti:


1) - Per Platone era una sorta di angelo custode - coscienza personale che interveniva ogni qual volta Socrate stesse per sbagliare: si tratterebbe di una sorta di "aiuto privilegiato" che non tutti hanno: solo le persone per bene. E' un dono divino per i buoni. E' come se la divinità partecipasse alla vita umana.

2) - Per Senofonte invece il demone è un'entità che lo spinge ad agire in determinati modi: Senofonte intende ancorare fortemente Socrate alla credenza in un ordine divino e in un intervento divino nella vita umana. Per Socrate l'importante non è vivere, ma vivere bene: quando la nostra anima è sana, giusta, allora anche noi stiamo bene.


Sempre Senofonte nei "Detti memorabili" riassume la prova dell'esistenza di Dio formulata da Socrate in questi termini:


"ciò che non è opera del caso postula una causa intelligente, con particolare riguardo al corpo umano che ha una struttura organizzata non casuale. Per questa sua origine l'uomo è ritenuto superiore a tutti gli altri animali ed è oggetto dell'interesse di Dio, come si deduce anche dalla possibilità di conoscere i suoi progetti sull'uomo ricorrendo all'arte della divinazione. Va notato che il Dio socratico (inteso come intelligenza finalizzatrice) è una sorta di elevazione a entità assoluta della psychè umana. Molti hanno notato che gli accusatori non volevano in realtà condannarlo a morte, ma semplicemente zittirlo
Ma Socrate non può accettare di essere zittito: il suo destino è andare in giro a colloquiare con la gente. Vivere bene per Socrate significa svolgere quest'attività e non rifiutare di essere colpevole significava non far perdere significato alla sua vita. Dal momento che era già vecchio e gli restavano pochi anni di vita, tanto valeva farla finita lì, ma non rinunciare ai suoi ideali."



Mentre la ricerca di Platone si spingerà in un'altra dimensione, quella di Socrate rimane saldamente ancorata al mondo terreno: la sua missione è far capire ai cittadini ciò che fanno. In Socrate vi è poi un rifiuto della politica (che peraltro troveremo anche in Platone): fa infatti notare che lui stesso aveva avuto parecchi problemi con la politica: prima contro di lui si erano scagliati gli oligarchici, ed ora i democratici (nell'accusa ai danni di Socrate si possono scorgere istanze politiche: lui era un aristocratico e i democratici volevano punirlo). Pur avendo problemi con la politica, Socrate non dice che vada abolita. Prima dell'esecuzione della pena capitale, a Socrate era stata presentata la possibilità di evadere dal carcere, ma lui si era rifiutato: in lui infatti vi era il massimo rispetto per la legge, che non si deve infrangere in nessun caso.
La legge può essere criticata, ma non infranta: di fronte ad una legge ingiusta non bisogna infrangerla, ma bisogna battersi per farla cambiare. Socrate afferma che sarebbe stato suo dovere far cambiare la legge e che non essendoci riuscito è giusto che lui muoia.


Gli Ateniesi son convinti di essersi liberati di Socrate avendolo eliminato fisicamente, ma in realtà per liberarsene completamente avrebbero dovuto "ucciderlo filosoficamente", batterlo a parole. In realtà volevano farlo tacere, ma han sortito l'effetto opposto: Platone infatti, che era intenzionato a dedicarsi alla vita politica, resterà sconvolto per condanna del maestro e si dedicherà alla filosofia. In Socrate vi è una vaga idea di provvidenza divina, ma non collettiva, bensì individuale: la divinità aiuta solo i migliori. Celeberrima è la conclusione dell' Apologia, in cui Socrate si rivolge ai suoi discepoli prima di essere giustiziato: "Ma ormai è ora di partire: io verso la morte, voi verso la vita. Chi di noi cammini a una meta superiore è oscuro a chiunque: non al mio dio."

Nel "Simposio" di Platone Platone Alcibiade afferma che Socrate non assomiglia a nessuno degli uomini del passato e del presente: è una figura nuova. Non si interessa di politica, ma non la disprezza, non rifiuta i festini, ma non vi si identifica (nel "Simposio" tutti i convitati si addormentano, Socrate no).

Soffermiamoci sulla tecnica discorsiva di Socrate:

La confutazione è la tecnica che dimostra l'inconsistenza del sapere dei propri interlocutori. Ma per arrivare a questo risultato bisogna partire dal metodo delle domande e delle risposte. "Che cosa è la giustizia?" può essere il punto di partenza per il dibattito: porre questa o qualsiasi altra domanda del genere significa richiedere la definizione delle cose in questione, che però deve essere valida per tutti i casi particolari. In questo senso la ricerca di Socrate è stata interpretata da Aristotele come ricerca dell'universale, nell'ambito dei concetti e dei problemi morali.


Gli interlocutori di Socrate si dimostrano incapaci di rispondere correttamente alla domanda sia perché sottovalutano Socrate (che dice di essere inferiore) sia perché rispondono citando casi particolari, anziché la definizione universale. Abbiamo già citato il caso della domanda "Che cosa è il coraggio ?": rispondere" non indietreggiare mai "è sbagliato, così come dire" assalire il nemico": si può essere coraggiosi anche nell'affrontare una malattia o un'interrogazione: una definizione corretta deve coprire tutti i casi possibili.
Nella sua funzione negativa il metodo delle domande e risposte si caratterizza come confutazione, ossia dimostrazione della falsità o contraddittorietà delle risposte date dall'interlocutore. Gli effetti prodotti dall'esercizio di questo metodo sono paragonati a quelli della torpedine marina, che intorpidisce coloro che tocca.



Di fronte alla confutazione si può reagire rifiutandola, come fanno vari interlocutori di Socrate. Ma, se la si accetta, essa può liberare dalle false opinioni che si hanno sui vari argomenti e agire dunque come una forma di purificazione. La situazione, che risulta dalla confutazione, è detta aporia, ossia letteralmente situazione senza vie di uscita. Essa consiste nel rendersi conto che i tentativi sin qui percorsi di rispondere a un determinato problema, hanno condotto a un vicolo cieco.


Ma in questa nuova situazione, liberi dal falso sapere e soprattutto dalla presunzione di sapere, ci si può accingere alla ricerca del vero sapere, tentando nuove strade che possano condurre ad esso. In questo nuovo orientamento il metodo delle domande e risposte può assolvere una funzione positiva.


Essa è paragonata alla funzione svolta dalla maieutica, capace di far partorire ad ognuno, mediante domande opportunamente indirizzate, la verità, di cui ciascuno è gravido.

Socrate si ostina incessantemente a far convergere i propri interlocutori nell'ammissione di un punto fondamentale: per saper agire bene, cioè virtuosamente, in un determinato ambito, occorre possedere il sapere che renda capaci di ciò.

A questo risultato egli perviene mediante l'analogia con le tecniche: il buon artigiano che sa svolgere bene la propria attività possiede un sapere capace di guidarlo a questo risultato. La stessa cosa deve valere in ambito etico-politico: questo è il nocciolo della famosa tesi secondo cui la virtù è scienza.



Questa tesi conduce ad alcune conseguenze.
In primo luogo, chi conosce che cosa è bene e quindi anche che cosa è buono per lui non può non farlo. Il bene è dotato di un potere incontrastabile di attrazione.
Ciò non significa che Socrate disconosca l'importanza delle passioni e delle emozioni nella vita umana, ma soltanto che in ogni ambito della vita umana l'unico strumento capace di orientare verso il comportamento corretto è ravvisato nel sapere. La posizione etica di Socrate non va confusa con forme di rigorismo ascetico.
Essa è invece definibile come una forma di eudemonismo, perché pone come obiettivo fondamentale il perseguimento della felicità (in Greco eudaimonia ).


E' il sapere che è in grado di effettuare un corretto calcolo degli stessi piaceri, misurando le conseguenze piacevoli o dolorose che essi possono arrecare.


Questo è il sapere, di cui Socrate dichiara di non essere in possesso, ma proprio per questo è il sapere che egli persegue. Non ha senso allora distinguere le varie virtù nettamente le une dalle altre: la virtù è una, come uno solo è il sapere in cui esse si compendiano: sapere che cosa è bene e che cosa è male.

Platone




Platone nasce ad Atene nel 427 a.C.
In quel periodo la città era dilaniata dalla guerra contro Sparta e dalle incessanti lotte interne tra forze democratiche, aristocratiche e oligarchiche. Di famiglia aristocratica, Platone si interessa inizialmente soprattutto alla politica. L'incontro con Socrate, nel 408, segna una svolta nella sua vita.
Platone diviene suo allievo e lo frequenta assiduamente fino al 399, anno del processo e della condanna a morte di Socrate.

Deluso sia dal governo oligarchico dei Trenta Tiranni, sia da quello democratico che aveva accusato il suo maestro, Platone compie numerosi viaggi, frequenta la scuola megarica di Euclide, visita la scuola pitagorica di Archita a Taranto e diventa amico di Dione, consigliere del tiranno di Siracusa Dionigi I.


Nel 387 torna ad Atene e apre una scuola nei pressi del parco Academo. Nasce così l'Accademia, istituto scientifico, scuola di formazione etico-politica e anche associazione religiosa per il culto delle muse. Nel 367 torna a Siracusa per istruire il nuovo tiranno Dionigi II, ma fallisce così come nel suo ultimo viaggio del 361. Platone muore nel 347, mentre Atene era in guerra contro Filippo e si avviava verso la decadenza.



Fortemente influenzato dal suo maestro, Platone continua l'indagine socratica della verità attraverso una critica serrata delle opinioni. A differenza di Socrate, però, Platone cerca una conoscenza universale e necessaria. Questa ricerca lo spinge a riscoprire il pensiero di Parmenide, che per primo aveva delineato una scienza dell'essere assolutamente certa.


In quel periodo, la concezione parmenidea era stata fortemente mediata dai pluralisti perché secondo loro penalizzava la conoscenza dei fenomeni.
Platone invece respinge questa mediazione e afferma l'esistenza di due ordini di realtà e di conoscenza. Da una parte egli pone la realtà e la conoscenza del mondo sensibile, fatta di cose, dall'altra la realtà e la conoscenza di una dimensione situata oltre questo mondo, costituita da idee di natura puramente intelligibile. Perché la nostra conoscenza delle idee sia valida occorre che le idee siano realtà universali e permanenti e non solo criteri regolativi interni all'intelletto.


Per Platone le idee sono valori verso i quali la realtà deve tendere finalisticamente. L'universo delle idee è infatti gerarchicamente ordinato dall'idea del bene.
È nell'Eutifrone che è possibile trovare un primo abbozzo della teoria delle idee. In questo dialogo Platone cerca di distinguere ciò che è santo da ciò che è empio e giunge alla conclusione che ciò che è santo deve esserlo sempre, in ogni circostanza. Ciò che rimane identico è tale perché ha una sua forma, una sua conoscibilità, ha cioè una sua idea. Se si vuole conoscere ciò che è santo bisogna conoscere quel principio eidetico che fa si che tutte le cose che sono sante siano tali. Le idee sono forme universali su cui sono modellate le cose particolari, e quindi avere scienza vuol dire servirsi dell'idea come di un modello intellettuale
.

Questa concezione del sapere è nettamente opposta all'arte della persuasione e della retorica promossa dai sofisti.
Molti dialoghi platonici sono infatti dedicati a smantellare alcuni precetti dei sofisti.

Nel Gorgia Platone definisce la retorica come pratica della persuasione mediante discorsi fondati dalla credenza invece che dalla conoscenza.

Nel Menone invece, Platone dimostra che l'uomo ha in sé delle idee fin dalla nascita: conoscere vuol dire ritrovare queste idee.

Platone dedica all'eristica l'Eutidemo, dialogo in cui si oppone nettamente al principio che afferma l'impossibilità di cercare nell'uomo ciò che si sa o che non si sa. Anche l'eristica, arte della controversia finalizzata all'obiettivo di far prevalere la propria tesi giusta o sbagliata che sia, diventa un suo bersaglio critico


Il suo rifiuto della concezione gnoseologica dei sofisti lo spinge a formulare la teoria della reminiscenza in cui sono presenti numerosi riferimenti all'orfismo. Secondo la religione orfica l'anima è immortale e rinasce più volte, conosce già sia il nostro mondo che il mondo degli inferi. Per Platone la rinascita continua dell'anima dimostra che imparare non è altro che ricordare. Inoltre, la ricerca della verità è una condizione intermedia fra il pieno possesso di essa e la sua completa assenza.


Platone condanna anche la teoria di Protagora secondo cui le cose hanno un nome per convenzione.

Nel Cratilo, dialogo rivolto al linguaggio, Platone sostiene che fra le cose e i nomi c'è una corrispondenza di natura. Le cose hanno una loro natura che non può essere manipolata da noi. Mettere nomi spetta solo a colui che sa, perché costruirà i vari nomi tenendo presente la natura delle cose attraverso l'osservazione delle idee di ogni cosa.



La dottrina platonica delle idee si sviluppa anche attraverso alcuni dialoghi dedicati all'amore e a alla bellezza. Le idee sono il fine dell'anima e l'anima è immortale proprio per il suo legame con le idee. L'amore e la vita sono aspirazione al mondo soprasensibile e all'immortalità.
L'amore descrive la condizione generale dell'uomo che tende a conseguire il bene e la felicità di cui manca.



Nel Simposio l'amore è desiderio di bellezza e di bene, e quindi avvertimento della loro mancanza.
L'amore si presenta come qualcosa di natura intermedia, un demone, figlio di Ingegno (abbondanza) e di Privazione (povertà).
Se la vita umana si muove tra un mondo sensibile e un mondo intelligibile, l'amore spiega il passaggio e la tensione dall'uno all'altro. L'amore è desiderio di possedere il bello e il bene. È intuizione dell'esistenza del bello e del buono da parte di chi non li ha ma li desidera.
Attraverso questo desiderio l'uomo oltrepassa i propri limiti, ascende gradualmente la scala delle cose belle e arriva a contemplare il bello in sé. L'ascesa amorosa ha come fine l'idea di bellezza.


Il passaggio dall'ignoranza alla scienza è delineato come l'evolversi del sentimento d'amore per la bellezza sensibile di un corpo verso la comprensione che la bellezza, presente in tutte le forme visibili, è unica e identica.
L'amore per la bellezza di un corpo non è che un passaggio per cogliere la bellezza nelle anime e per amare la bellezza nelle scienze.
Nel Fedro l'anima, principio di vita e di movimento, indipendente dal corpo e immortale, è descritta come un carro guidato da due cavalli alati. Quando prevale il cavallo bianco, che guida gli impulsi buoni e razionali, l'anima vola nel mondo delle idee.
Quando prevale il cavallo nero, che guida le passioni sensibili e carnali, l'anima cade sulla terra ed è costretta a reincarnarsi in altri corpi.


Secondo Platone l'anima conserva i ricordi del mondo divino anche dopo la caduta nel corporeo e nel sensibile. La visione delle cose belle nel mondo sensibile risveglia i ricordi delle essenze contemplate nel mondo intelligibile e accende l'anima di un delirio divino, la forma più alta d'amore.
Platone continua l'elaborazione della concezione di anima nel Fedone, commovente racconto delle ultime ore di Socrate. In questo dialogo il filosofo è descritto come colui che già in vita è sottoposto ad una sorta di morte. La realtà sensibile è avvertita come una prigione. Il corpo è impedimento dell'anima alla scienza. Al filosofo non resta quindi che morire per liberare l'anima e la scienza dai vincoli corporei. Il vero filosofo desidera morire per liberarsi dal carcere del corpo e per tornare nel puro mondo delle idee, altrimenti raggiungibile solo con la ricerca rigorosa e disinteressata della verità e l'esercizio della virtù.




Nella Repubblica Platone delinea una nuova concezione dello stato per realizzare l'ideale della conoscenza universale e necessaria.
Secondo Platone lo stato si forma per soddisfare i propri bisogni con l'aiuto degli altri, ma l'eccessiva brama di potere e il desiderio di espansione territoriale provocano lotte continue e guerre.
Occorre quindi creare un esercito di soldati di professione per difendersi, i custodi dello stato, la cui vita dovrà fondarsi sulla totale condivisione. È per questo motivo che Platone ritiene indispensabile l'abrogazione di ogni possesso individuale, abolizione che deve essere estesa anche alla famiglia. Inoltre, lo stato non solo si occuperà dell'educazione dei figli, ma controllerà anche le unioni sentimentali, e le donne dovranno essere educate per poter collaborare con gli uomini in tutti gli uffici pubblici, compresa la guerra. Solo la classe dei lavoratori è esentata dalla rinuncia alla famiglia e dall'obbligo della formazione
.


Se per Socrate era importante occuparsi soprattutto dell'anima, Platone ritiene indispensabile non trascurare lo stato. Il superamento dell'orientamento socratico è evidente proprio nella corrispondenza che Platone realizza distinguendo le tre classi sociali che formano lo stato sulla base di una teoria dell'anima composta da tre parti. La parte concupiscibile, l'istinto, equivale alla classe dei lavoratori, uomini di bronzo. La parte animosa, la forza emotiva, corrisponde invece ai custodi, uomini d'argento, mentre la parte razionale, la ragione, spetta ai governanti, uomini d'oro.


Lo stato deve essere governato da persone che racchiudono in sé filosofia e potenza politica. Dominio politico e vera conoscenza, ispirata dall'amore dell'idea, devono incontrarsi, e ciò accade solo con un governo aristocratico, tutte le altre forme (timocrazia, oligarchia, democrazia, tirannia) non sono che la degenerazione di questo modello perfetto
.


Le idee garantiscono non solo la possibilità di una conoscenza vera e universale ma anche l'unità essenziale e permanente del molteplice e del divenire.


Attraverso il mito della caverna Platone mostra le tappe della conoscenza umana. Secondo questo mito, gli uomini sono imprigionati dentro una caverna, con le spalle rivolte verso la luce. Gli oggetti reali si trovano fuori dalla caverna, ma gli uomini non si possono voltare per guardarli direttamente. Possono solo osservare le ombre che gli oggetti proiettano contro le pareti della caverna.



Per Platone gli esseri umani sono quindi condannati a poter cogliere attraverso la sensazione solo le ombre delle idee. Solo pochi riescono a uscire dalla caverna e ad accorgersi della bellezza del reale. Spetta ai filosofi guidare gli esseri umani verso la conoscenza delle idee, mediante lo studio della matematica e l'esercizio della dialettica che insegnano la contemplazione del bello e del vero.



Nel Parmenide vengono affrontati i problemi relativi alla dottrina delle idee. Le difficoltà sorgono quando si devono considerare insieme i processi di unificazione e di divisione, perché le idee sono distinte dalle cose (p.e. l'idea di bellezza non coincide con le cose, altrimenti diverrebbe una e molteplice) ma allo stesso tempo somigliano ad esse (sono infatti unificate da questa somiglianza). Per risolvere questi problemi, Platone afferma la teoria della partecipazione: le cose partecipano semplicemente delle idee. Il mondo dell'essere e il mondo sensibile stanno nello stesso rapporto in cui si trovano l'uno e il molteplice
.

Il molteplice non si può pensare senza riferimento all'unità, in quanto è anch'esso costituito di unità, a sua volta l'uno è essere in quanto unifica il molteplice sensibile e quindi è in connessione con il non essere sensibile. Per Platone, la separazione parmenidea fra essere e non essere è insostenibile, perché comporterebbe l'impossibilità di stabilire relazioni conoscitive fondate. Ogni relazione conoscitiva implica diversità, cioè non essere, indica dunque che un ente è qualcosa e insieme che non è qualcos'altro.


Platone condanna anche la dottrina eracliteo-protagorea della conoscenza come sensazione. Nel Teeteto sostiene infatti che la sensazione non consente una conoscenza valida e vera basata sul mondo delle idee.
.

È nei dialoghi della vecchiaia che si compie il parricidio di Parmenide


Nel Sofista Platone delinea il metodo dicotomico della dialettica e ripropone il problema dell'esistenza del non essere. Per trovare una mediazione fra mondo ideale dell'essere e conoscenza umana è necessario «uccidere Parmenide». I
l non essere è definito in quanto negazione relativa e non come negazione assoluta, perché la diversità è una forma fondamentale dell'essere stesso. Solo in questo modo si può rendere ragione del falso e dell'errore. Escludere qualsiasi relazione fra l'essere e il non essere significa rendere impossibile sia la conoscenza che il linguaggio
.


La dialettica studia le forme dell'essere per stabilire fra di esse il rapporto di identità e di diversità. Chiarendo quali forme della realtà si collegano e quali si escludono, la dialettica è in grado di determinare la struttura del reale, mostrando tutte le sue determinazioni e articolazioni
.


Il procedimento della diaresi-divisione permette di determinare un genere (nome che Platone preferisce ora a quello di idea), indicando le relazioni di esclusione e inclusione in cui si trova con gli altri generi.
Si parte tagliando in due ogni genere (muovendo da generi diversi) fino a raggiungere il genere da determinare, in modo tale che questo possa essere colto in un numero sempre maggiore di relazioni.
Nel Filebo Platone ripete che i generi non devono essere intesi come unità rigide ma in rapporto di partecipazione gli uni con gli altri.
La ricerca dei generi si muove sia nell'ambito dell'unità che nell'ambito della molteplicità.
I due generi massimi sono il finito e l'infinito.


Sempre nei dialoghi della vecchiaia troviamo il problema dell'origine dell'universo e della formazione del mondo. Platone rifiuta la concezione meccanicistica del mondo formulata da Democrito e delinea un discorso sulla genesi e l'organizzazione del cosmo, correggendo il carattere qualitativo della vecchia fisica con schemi e proporzioni matematiche che gli conferiscono una precisa struttura qualitativa (di cui si serve per dimostrare il fine razionale dell'universo).


L'universo è concepito come una cosa generata da un demiurgo, un artefice divino, che opera imitando i modelli del mondo delle idee e le proporzioni matematiche, ma non si tratta di un vero creatore perché le cose gli preesistono.



L'intero universo (così come la città-stato) è considerato un organismo fornito di un'anima intelligente e di un corpo, come un grandioso essere vivente e animato. L'anima del mondo è principio generale di vita, mediazione fra il piano sensibile e il piano razionale-ideale della realtà, realizzazione della compresenza di essere e divenire che caratterizza i fenomeni.


Il finalismo del mondo è dimostrato dal suo rispondere al criterio del meglio, di cui si fa realizzatore il demiurgo, mentre l'imperfezione del mondo è causata dalla chora, materia sensibile sottoposta al mutamento e alla corruzione. Il termine chora è usato per definire ciò in cui le cose si generano, ma indica anche qualcosa di negativo, simile al non essere.

Nei dialoghi della vecchiaia è presente anche a una rielaborazione delle affermazioni sullo stato e sulla politica.
Mentre nella Repubblica Platone analizzava lo stato come un modello ideale, fermo al di sopra dell'esperienza umana, nel Politico lo stato si configura come una mescolanza di cui bisogna trovare la giusta misura.

L'arte della politica è l'arte della misura, la ricerca del giusto mezzo di equilibrio fra eccesso e difetto, ed è per questo che non bisogna dare troppa importanza a un corpo di leggi scritte.
La legge è paragonata ad un uomo autoritario e ignorante
.

Eppure, nell'ultimo dialogo, rimasto incompiuto, Platone affida proprio alle leggi il governo dello stato, rinunciando sia alla classe dei governanti che a quella dei custodi e rivalutando la famiglia, in quanto condizione abituale degli individui. Cambia anche il modello politico, non più aristocratico, bensì combinazione di elementi monarchici e principi democratici


Primaflora, il saggio dalla doppia personalità
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