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Il mito della rosa e di altri fiori

Ultimo Aggiornamento: 29/03/2010 17:27
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29/03/2010 17:27

IL mito della rosa e di alcuni altri fiori.





Rosa, rosae, rosam... leggono volenterosi tutti gli studenti che per la prima volta s'accostano al latino, rosa, rosae ripetono quando vogliono ripassare, salvo poi arenarsi alla pagina successiva, quando iniziano le eccezioni grammaticali.

Non a caso il termine "rosa" è forse uno dei più semplici: prima declinazione, femminile, riferito ad un "nome comune di cosa" universalmente noto, uno dei pochi termini usati in tutte le lingue delle terre che a noi ci è dato conoscere, che ha fatto pensare ad un sostrato comune risalente addirittura al IV millennio a. C..
Ci sono due assonanze poetiche: ros, roris in latino è la rugiada, mentre ros nell' idioma celtico, significa ghiacciaio.
La rosa dunque è il più comune fiore è presente con circa 150 specie, varietà ed ibridi, nasce e cresce in associazione con l'elemento acqua in tutta la sua pienezza, dalla rugiada del mattino ai ghiacciai delle alte vette. Quasi in armonia col proprio nome è una pianta colonizzatrice, cioè vive anche nella roccia, le bastano il sole e l'acqua, sono le sue radici stesse a creare a poco a poco la terra fertile, che giova anche alle altre specie.

Passando dalla rosa selvatica a quella coltivata le cure necessarie ad una buona fioritura aumentano, ma questo solo perché appunto si desidera un fiore artefatto, di colore, dimensioni, profumo diversi da quelli originari... il roseto in se', con le sue caratteristiche foglioline tondeggianti e le spine, resta una pianta rustica, che non teme i rigori dell'inverno ed affonda coraggiosamente le radici in cerca d'acqua nella calura estiva.

Il primo a parlare con tutta naturalezza della rosa, anzi, d'olio di rose per massaggi, è Omero nell'Iliade, canto XXIII, verso 186: è il culmine delle tragedia, Achille ha ucciso Ettore e minaccia di gettarlo in pasto ai cani, ma non avviene perché:


"... i cani li teneva lontani la figlia di Zeus, Afrodite

di giorno e di notte, l'ungeva con olio di rose,

ambrosio, perché Achille non lo scorticasse tirandolo..."



Secondo la leggenda più antica Afrodite Urania nasce appunto dalla spuma del mare, sul quale conserva potere assoluto e vive per fecondare la terra.

Esiodo descrive la sua nascita nella Teogonia:


"...in quella schiuma (del mare) si formò una fanciulla; ella stette dapprima nella sacra Citera, e quindi andando via di là giunse a Cipro circondata da flutti; così venne fuori una dea piena di grazia e di fascino ed attorno a lei cresceva l'erba sotto ai piedi ben fatti..."


Le testimonianze storico sono un po' diverse: gli Assiri furono i primi a venerarla, poi approdò a Paphos, nell'isola di Cipro, che resta per tutta l'antichità il centro di culto più importante e ad Ascalona fenicia, dove tuttavia si confonde col culto tributato ad Astarte, cui era sacra non già la rosa, ma l'ortica ed infine approda, quasi contemporaneamente, ad Atene ed in Oriente

Omero però la chiama figlia di Giove, perché c'è un'altra Afrodite, figlia di Zeus e di Dionee, che ha l'appellativo di Pandemia perché è la Dea di tutti e la suscitatrice dell'amore universale.

Il concetto di doppio è comune alla mitologia greca, basta pensare ad Elena di Troia, ai gemelli Paride-Cassandra, all'ambiguo rapporto fra Apollo solare e Dioniso notturno... in realtà si tratta di esemplificare la doppiezza che giace in ciascuno di noi, le opposte facce di uno stesso potere.


"Afrodite" dice un frammento di Sofocle "non è Afrodite soltanto, ha tanti nomi: è morte, è forza, è frenesia furiosa, è desiderio, è gemito..."


A Roma, prima che l'espansione territoriale facesse conoscere i fasti d'Oriente, "Venus" era addirittura uno spirito asessuato, che fecondava e proteggeva gli orti. Al centro del giardino, che per i romani era interno alla casa, si piantava in suo onore un grande alloro, un roseto e poi menta, mirto e rosmarino; si riteneva che in mezzo ad essi vivessero durante il giorno i "lares familiae" cioè le divinità tutelari della casa, che uscivano in giardino alle prime luci dell'alba e rientravano nelle loro statue al tramonto.

Più tardi Venere imperiale ereditò appieno gli attributi della sua antenata greca, ma fu legata sempre più strettamente alla rosa coltivata ed ai valori della fecondità domestica che alla libido propriamente detta.


In che cosa consisteva il suo culto?


Probabilmente nell'esercizio del ballo, una forma molto affine alla danza del ventre, e nell'apprendimento dei segreti del sesso, che era praticato ritualmente all'aperto; certamente era escluso ogni tipo di sacrificio cruento perché la Dea aveva in orrore il sangue, il suo altare non era mai stato profanato dalla morte e si narra che nei suoi giardini non volasse mai alcun insetto molesto.

Purtroppo sono solo leggende, perché il mare da cui la bella Dea è nata è molto inquieto ed il tempio di Paphos fu distrutto più volte da terremoti, tanto che oggi non restano più reperti sufficienti ad una ricostruzione esatta dei cerimoniali.

Per avere una descrizione accurata dei giardini d'Afrodite dobbiamo dunque aspettare il VI sec. a. C. con le intramontabili parole di Saffo, la poetessa greca che dirigeva un tiaso, connesso appunto al santuario della Dea da un sacro giardino:


..."da Creta a questo tempio

divino: v'è un bosco gentile

di meli, are vaporano d'incensi.

L'acqua fredda risuona fra le rame

del melo e la radura è un'ombra

di rose. In un palpito di foglie

cola sopore.

Nei pascoli prativi, fioriture

di primavera: spira un alito

di finocchi, soave..."


Pochi sanno, infatti, che il melo, uno dei più noti esponenti della famiglia delle rosacee, era sacro alla Dea e che il suo frutto n'era addirittura considerato un'epifania. Nel giardino di Saffo c'era però anche un melograno, che si diceva piantato da Afrodite stessa, e poi cerfoglio, meliloto, finocchi salvia e viole.

La viola mammola viene, infatti, associata alla rosa nella confezione di corone ed è citata già da Pindaro (ditirambo II v.24-25)
Nel V sec. Erodo parla già della rosa a cento petali come di un fiore comune e racconta come fosse coltivata con successo nei giardini del mitico re Mida, in Macedonia.
Le "Georgiche" di Nicandro completano la notizia dicendola originaria del monte Bermios, nel Caucaso orientale, sul quale le famiglie greche, in primavera ed in autunno, facevano scampagnate per procurarsi le talee.

Per tornare al nostro re Mida, Erodoto racconta che presto lasciò la città di suo padre e si stabilì in Tracia, poi nell'Edonia e nell'Emazia, sempre con le sue rose sottobraccio, fino a fissare la propria dimora e soprattutto i suoi prestigiosi giardini ai piedi del monte Bermios... ed ecco che storiografia e leggenda coincidono.

Siamo circa nel V a. C.: ben presto la grossa spinta della colonizzazione ellenica porterà la rosa in tutto il Mediterraneo, soppiantando rapidamente, o almeno mettendo in secondo piano, gli altri più antichi fiori sacri: il giglio ed il fior di loto. Legata come s'è detto al culto di Venere, dea di fecondità e delle acque, la rosa fu impiegata largamente nel suo culto e collegata fin dapprincipio all'amore ed al benessere intesi quasi in senso moderno, vale a dire come beni in se' e non soltanto per ottenere la fecondità.

A questa "modernità" della rosa va aggiunto il suo "portamento arbustivo" che la rende più facile da coltivare e più adatta del giglio e del loto ad essere intrecciata in corone, le grandi protagoniste dei culti antichi, nonché lo straordinario colore. Se prestiamo fede alle testimonianze dei greci, infatti, la rosa selvatica era bianca e rosa pallido, mentre il meraviglioso rosso rubino è attributo naturale della rosa centofoglie.
In origine però qualche cosa di vero ci dev'essere stato e sembrò naturale pensare che il colore rosso, così nuovo sugli altari dopo il biancore dei gigli e del loto, fosse dato dal sangue della Dea o del suo amante, Adone.

La storia


Adone era un, un bellissimo giovane conteso tra Afrodite e Semele e costretto pertanto da Giove a dividersi tra loro. Marte però, geloso, gli aizza contro un cinghiale e qui i pareri sono discordi, perché taluno vuole che Venere lo nascondesse in un cespuglio di rose selvatiche, candide, che s'arrossarono col sangue del giovane, altri che invece ella stessa, accorsa in aiuto, rimanesse impigliata in un cespuglio di rose, tingendole, mentre Adone a terra, nutriva del suo sangue gli anemoni.


In ogni caso i fiori, fino allora canditi, trassero il loro colore da questa disgrazia.
Quando neppure i giardini di Paestum fornivano più rose, s'importavano dall'Egitto, dove ormai il loto era del tutto trascurato a favore di quest'ultima.

Plinio per primo ci descrive con vivezza di dettagli la coltivazione della rosa, consigliando di ricorrere alle talee perché seminando in modo tradizionale bisogna attendere troppo; ormai si conoscono diverse specie: Campania, Prenesto, Mileto, Trachinia Alabanda producono fiori di tonalità e profumi leggermente diversi e c'è solo l'imbarazzo della scelta. Sempre Plinio riferisce anche l'abitudine d'ergere a divisione della proprietà curiose palizzate di rose selvatiche piantate in due solchi affiancati, al centro dei quali si sistema una rete di vimini bene intrecciato per far arrampicare le giovani piante, Plinio ne raccomanda caldamente l'uso, affermando che neppure il fuoco può distruggerle
Affermazione di per se' un po' esagerata, ma in qualche modo supportata da un uso analogo del biancospino da parte dei giardinieri, tali barriere naturali si dece, tenessero lontani gli spiriti cattivi... Probabilmente alla resistenza naturale della barriera di spine era unito il "potere" di cui si riteneva dotata la pianta.

Nei giardini domestici dell'antica Roma in ogni caso insieme alla rosa si coltivava:
il giglio, già sacro a Giunone per essere derivato dal suo latte e ritenuto pertanto dotato di un gran potere salutare e ricostituente,
il papavero, che invece resta legato a Venere perché è il fiore dell'oblio,
il fiordaliso e naturalmente il mirto che Dioniso, nell'oltretomba, aveva usato per riscattare la propria madre e da allora s'era guadagnata la "patente" di fiore matrimoniale,

A che cosa servivano tutti questi fiori?

Innanzi tutto ad intrecciar corone, dono di Giano agli uomini, il cui uso rituale era severamente regolamentato, pare addirittura che in epoca repubblicana ne fosse proibito l'uso profano: dovevano servire soltanto ad onorare gli Dei ed a celebrare matrimoni.


L'impiego di corone di rose non era comunque riservato a Venere: ci sono notizie e citazioni al riguardo, nei rituali di Cerere, nella festa primaverile dedicata a Flora, nelle processioni come nei banchetti dionisiaci. Questo anche perché si riteneva che il profumo di rosa combattesse efficacemente i fumi dell'alcool.


La rosa, è un eccellente tonico ed astringente. Nell'antichità l'olio di rose era usato sia per imbalsamare i morti (come appunto narra Omero nell'Iliade) che per lucidare il legno pregiato con cui erano costruiti molti idoli. Per ottenerlo si faceva bollire del giunco aromatico in olio d'oliva, si agitava bene e si versava sui petali di rosa opportunamente seccati. Si lasciava in infusione un giorno ed una notte e si filtrava il tutto, conservandolo in vasi prevalentemente unti di miele.

In modo analogo si otteneva il vino ed il miele alle rose; Ippocrate però preferisce spremere il succo di petali freschi direttamente nel miele ed esporlo poi per una quarantina di giorni al sole.

Dai petali opportunamente seccati si ricavava inoltre una polvere deodorante chiamata "diapasma", che era usata come talco dopo il bagno caldo e prima di quello freddo. Plinio ci parla di un profumo ottenuto mescolando, sempre in olio d'oliva, fiori di rosa, zafferano cinabro e giunco deodorante... in realtà non era un profumo, ma un unguento profumato, infatti, non si sapevano ancora distillare le essenze.

In cucina si faceva grande uso d'insalate di rose, soprattutto come "intermezzo" fra una portata e l'altra quando si beveva troppo; molto quotato era anche il paté alla rosa.


Con l'effusione di sangue, il concetto già pagano della rosa tinta dal sacrificio d'Adone acquista una straordinaria forza ed intensità.

Si è detto molto, forse troppo, sui legami collegati ai culti agrari della primavera, con Attis, Adone, Osiride... di solito si dimentica il mito germanico di Bälder, il Dio che muore per sbaglio e non risorge più, se non per vendicarsi nella gran battaglia dell'ultimo giorno.
Accanto alle erbe officinali ed agli alberi da frutto, si coltivano sempre più spesso fiori rari ed essenze pregiate, primo fra tutti il gelsomino, a cui sono riconosciute virtù terapeutiche ed afrodisiache.

La rosa è la grande protagonista di questi giardini; in Persia, dove è di casa, nasce la leggenda dei suoi amori con l'usignolo, vicenda talvolta drammatica, quando l'uccello muore ferito dalle spine, talora ad esito felice, perché dopo un triste inverno di separazione in cui egli la crede morta, la rosa torna a fiorire.

"
I giardini arrossiscono per lo splendore delle rose" canta Firdousi "le colline sono coperte di tulipani e giacinti; nei boschetti piange e si lamenta l'usignolo; la rosa risponde sospirando al suo canto."


I sovrani ottomani Osmanlis coltivano con le proprie mani i roseti e l'abitudine di lastricare le strade di petali di rosa è proibita, perché considerata blasfema, dato che il fiore dev'essere trattato con dolcezza. Si sente l'eco della mistica indiana, dove pure la rosa s'è diffusa, ma non è riuscita ad occupare il posto del loto.
.

Il medico arabo Eissa ibn Massa riconosce ai petali di rosa rossa una virtù al tempo stesso fortificante e rinfrescante che si rivela miracolosa nelle affezioni cerebrali. Ishac ibn Amram la consiglia per rafforzare lo stomaco ed il fegato, soprattutto nelle congestioni causate dall'eccessivo calore. Razès la usa come febbrifugo; lo stesso pensa Avicenna, che la considera anche efficace contro la nausea, le infiammazioni degli occhi e della matrice e le otiti.

Qualcuno cura con successo le sincopi, mentre Ibn el Beithar usa petali di rosa disseccati sulle cicatrici prodotte dal vaiolo.


Se i letti di rose non esistono più, l'uso dei petali e quello delle corone si diffondono fino a superare forse addirittura gli usi romani. Se non più esteso, il nuovo costume è certamente più documentato, perché giardinieri e fabbricanti di corone si riuniscono in corporazioni, come tutti gli artigiani i e devono pertanto mettere per iscritto norme e regolamenti. I sistemi di coltivazione non differiscono di molto da quelli già tramandati da Plinio, . Anche da noi va scomparendo l'uso di lastricare di fiori o di petali la strada e si moltiplicano invece le norme per conservare fresche ed intatte le corone il più a lungo possibile. I fiori vanno colti prima delle luci dell'alba: da mezzanotte circa all'aurora, quando sono ancora bagnati di rugiada, vanno conservati in un luogo fresco ed intrecciati quando sono asciutti, ma ancora teneri, in modo che i gambi, seccandosi, si saldino maggiormente. Se ormai fabbricar corone è considerato un vero e proprio mestiere, costruirle da se' continua ad essere il vanto di una buona padrona di casa, ne' più ne' meno che il ricamo o il merletto.





La rosa, come regina dei fiori appunto, meriterà una gamma intera di significati diversi, a seconda del colore e della foggia: rossa, naturalmente, simbolo d'amore, ma se l'amata è una fanciulla, meglio puntare sul rosa tenero, gialla è una scenata di gelosia, bianca allude a qualche complicità segreta, unita ad altri fiori da luogo appunto a messaggi complessi: col mirto è una vera e propria richiesta di matrimonio!


Sempre dall'Oriente (era il casto svago delle donne dell'harem nei primi giorni della buona stagione!) viene anche la novità della merenda sul prato, delle feste campestri dove regine ed imperatrici intervengono mascherate da tenere pastorelle, con ricette a base di fiori d'arancio e d'acqua di rose.


Primaflora, il saggio dalla doppia personalità
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