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Cultura Latina

Ultimo Aggiornamento: 29/03/2010 21:52
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29/03/2010 21:52

BREVI CENNI STORICO LETTERARI DELLA CULTURA LATINA
BREVI CENNI STORICO LETTERARI DELLA CULTURA LATINA




I canti religiosi rappresentano le prime forme poetiche dei Romani, volti a celebrare, con riti adeguati al carattere agrario del popolo, la natura, per ovviare al male che incombe sulla terra con preghiere, rivolte dal sacerdote arvale, alla potenza di divinitá agresti, nella festa della primavera, in uso fino al terzo secolo dopo Cristo, dopo il ripristino voluto da Cesare Agusto nel 742, perché le zolle offrissero biade dalla terra ferace (arva). Si svolgeva la festa presso un bosco sulla via Campana per tre giorni nel mese di maggio e il rito era celebrato dai dodici sacerdoti arvali, che rappresentavano i dodici figli di Acca Larentia, nutrice di Romolo, che aveva preso il posto di uno di essi morto precocemente.

La dea tutelare era Dia, epiteto dell’antichissima Cerere indigena, rappresentante la terra feconda.


“Quod bonum, faustum, felix, fortunatum, salutareque sit populo Romano, Quiritibus, fratibusque Arvalibus, mihique”.



Sia buona, propizia, felice, fortunata, salutare per il popolo romano, per i Quiriti, per i fratelli arvali, per me.



La cerimonia lunga, complessa, con i rituali sacrifici, si concludeva con il moto ritmico dei piedi dei docici sacerdoti e con la intonazioene del carme di oscura interpretazione, con cui invocavano divinitá laziali e italiche, in linguaggio primitivo per ottenerne la protezione.
Enos Lases iuvate...........triumpe, triumpe, triumpe, triumpe, triump.

Questo culto di carattere agreste non aveva nulla a che vedere con quelli di carattere mistico proprio dei Greci, perchè indirizzato, nelle sacre formule, a liberare la terra e l’uomo dai morbi, attraverso il sacrificio di tre vittime, l’agnella, il porco e il toro, condotte intorno alle messi verdeggianti.

Molto noto era anche il Carmen saliare, cantato dai dodoci sacerdoti Sali danzanti, stabiliti a Tusculum e a Tibur e ministri di Mars e di Hercules. Il loro numero corrispondeva a quello degli ancilia, gli scudi sacri custoditi da loro, uno dei quali era caduto dal cielo, come emblema della futura grandezza di Roma, mentre gli altri, perchè nessuno potesse impadronirsi di quello vero, erano stati fabbricati da un mitico artista, poi divinizzato, Mamurius Veturius.

Virgilio fa comparire i Salii al tempo di Evandro, che accolse Enea e i Troiani ai piedi del Palatino dove sorse piú tardi il Forum Boarum. I Salii con le tempie recinte di ramoscelli di pioppo, mentre i vecchi cantavano le lodi di Ercole e i giovani ne seguivano l’azione con la mimica della danza, sacrificavano a Marte e ad Ercole.


“Axamenta dicebantur carmina saliaria, quae a Saliis sacerdotibus componebantur, in universos homines ( forse deos ) composita”.



Axamenta erano chiamati i carmi saliari che erano composti dai sacerdoti Salii e rivolti a tutti gli dei.


Famose sono anche le formule di scongiuro, gli oracoli, le profezie, i proverbi, (che si riscontrano ancora nelle consuetudini popolari e rusticane,) che una volta i vati di Fauno recitavano, con i quali sembra che Fauno abbia rivelato i fati agli uomini.


“quos olim Fauni vatesque canebant, quibus Faunus fata cecinisse hominibus videtur”



Non mancavano certamente i canti di amore, le cantilene delle donne al telaio e degli uomini al loro lavoro, che hanno sempre accompagnato le varie attivitá umane.

Le nenie, i carmi conviviali e quelli trionfali erano molto importanti e da essi, forse, nella celebrazione eroica delle imprese rimaste nella memoria, provenivano le radici di racconti leggendari alla base dell’epopea nazionale.


"Utinam exstarent illa carmina quae, multis saecliis ante suam aetatem, in epulis esse cantitata a singulis convivis de clarorum vivorum laudibus, in Originibus scriptum reliquit Cato!”


fa dire Cicerone a Bruto


La “Nenia est carmen quod in funere laudandi gratia cantatur ad tibiam”


La nenia é il carme che veniva cantato con l’accompagnamento della tibia in lode dell’estinto.

Dapprima fu una parente ad esaltare il defunto, mentre poi fu una donna prezzolata, la praefica, a farlo e perse il carattere della improvvisazione, per assumere quello di un eccesso di sconfinata lode, che travisava la reale personalitá e la storia della vita connessa all’estinto.

Nell’Italia meridionale l’usanza delle lamentazioni funebri rimase viva a lungo..

Oggi , per l’evoluzione dei costumi di vita, in seguito al livellamento della cultura agevolata dai mezzi di comunicazione di massa, tipo la televisione, i quotidiani e l’obbligo scolare, questo uso é, per fortuna, venuto meno.

I carmi trionfali delle soldatesche accompagnavano, in genere, con lazzi il trionfo dei condottieri ed erano colmi di beffe anche verso il vincitore, per esaltare, a volte, un tribuno caro al popolo, erano la viva testimonianza della partecipazione della plebe alla vita pubblica. Alternando le lodi ai vituperi, con lo scopo di moderare la gioia del trionfo, si volevano scongiurare le possibili ritorsioni della sorte.

Questa licentia popolana si riscontrava anche nei cortei nuziali, dove la

maldicenza serviva da antidoto allo sposo contro i sinistri influssi del destino.

I fescennini versus, di cui si servirono i Romani nell’epoca arcaica, in saturnio sono la testimonianza di una autoctona forma poetica, che col tempo si dischiuse all’epopea, alla lirica e alla rappresentazione scenica.

Attraverso il contatto con altre civiltá nella sua espansione politica e l’opera di grandi autori, i Romani dettero alla lingua una forma stilistica perfetta nelle sue strutture sintatticha, forse unica nel suo genere, e crearono opere di grande valore artistico, letterario e culturale.

Nella loro capacitá di assimilazione e di trasmissione di cultura ai popoli con i quali vennero a contatto o per motivi commerciali o di conquiste territoriali, i Romani lasciarono tracce della loro presenza in opere monumentali, quali strade, teatri, terme, opere giuridiche,

opere giuridiche, testimonianza del loro genio creativo e propulsivo di civiltá.



Parva mei mihi sint cordi monumenta Philitae
A me stiano a cuore le piccole massime del mio Filita
Cat., Carmina XCV, 9




Origini arcaiche e poesia neoterica



La grande elegia romana prende le mosse dall'imitazione dell'elegia mitologica ellenistica, in particolare da Callimaco, Antimaco di Colofone e Filita di Samo: conteneva elementi autobiografici e collegamenti velati tra le peripezie di eroi del mito e le vicende personali del poeta.

Questa connotazione non è però pacifica: l'elegia latina sviluppò tale aspetto, conservando però la generalizzazione della storia personale. Inoltre l'elegia latina diede spazio ad elementi assorbiti da altri generi letterari, come la commedia, l'epigramma, la tragedia, la poesia pastorale.



Le origini dell'elegia latina dei poeti latini si colloca nel periodo storico in cui visse Catullo, e la commistione di generi ereditata dall'analoga tendenza della letteratura alessandrina.

Si possono inoltre ipotizzare tramite il confronto con l'elegia greca degli antecedenti preletterari dell'elegia, rintracciabili nei carmina convivalia e nelle laudationes militari, che richiamano i paralleli contesti della lirica greca arcaica. Così come questa derivò i suoi metri e il suo linguaggio dall'epica omerica, anche la letteratura latina affonda nelle sue tradizioni guerriere sia l'epica che l'elegia: il distico elegiaco appare in latino già nell'epigramma funerario attribuito ad Ennio.

Ma l'elegia di stampo ellenistico fece il suo ingresso a Roma tramite la generazione dei Poetae novi.

In essi l'apparato di conoscenze legate alla mitologia diversamente dai predecessori orientali non è più il centro del gioco poetico, ma ne è un ingrediente accessorio volto a mettere in evidenza lo spirito irruento del sentimento di chi scrive.

Gaio Elvio Cinna va ricordato come autore di elegie di tipo sia erudito che erotico-sentimentale, grazie all'influenza esercitata su di lui e su Cornelio Gallo dal poeta Partenio di Nicea.

La poesia elegiaca, deve moltissimo alla lirica neoterica che mutuò le modalità dell'elegia ellenistica e a Catullo che ne diede saggi di grande raffinatezza formale ed eleganza concisa.

Temi originariamente catulliani sono nell'elegia la rivolta morale, il gusto dell'otium come estraneità all'impegno civile e politico. L'elegia trova in Catullo anche l'abbozzo della nuova forma compositiva (soprattutto nel carme LXVIII, in cui è rilevante l'elemento mitologico). Di questa continuità con la tradizione neoterico-catulliana la stessa poesia elegiaca si mostra più volte apertamente consapevole, rendendo il debito omaggio ai suoi precursori.


Elegia quoque Graecos provocamus
Quintiliano, Inst. X, 10



Anche nel campo dell'elegia reggiamo il confronto con i Greci





La grande elegia dell'età augustea


La seconda metà del I secolo AC è il periodo di massima fioritura dell'elegia, che a Roma assume soprattutto la connotazione di poesia d'amore fortemente soggettiva.
In essa la vita del poeta, tutta dedita all'amore, si configura come servitium, come schiavitù alla domina, capricciosa e infedele. La relazione è fatta di rare gioie e di molte sofferenze (oltre a tradire e ingelosire l'amante, gli si concederà a fatica: è un topos l'innamorato respinto che si duole, di fronte alla porta chiusa, per la crudeltà dell'amata).


Con la poesia ha inizio la letteratura latina. Essa fa i suoi primi passi contemporaneamente con l'epopea e col teatro. Molteplici sono le ragioni che presiedono a questo sviluppo: alcune sono da ricercare nella situazione della letteratura greca contemporanea, nel ruolo giocato insieme dalla tradizione omerica e dalle rappresentazioni teatrali nella cultura ellenica; altre, invece, dipendono da condizioni proprie di Roma.

Prima della letteratura scritta era esistita una letteratura orale, i cosiddetti "carmina convivalia", canti recitati da giovani, durante i banchetti, per elogiare i grandi uomini del passato. L'influenza della civiltà etrusca aveva diffuso la conoscenza dei miti greci che si erano fusi con le leggende popolari. Abbiamo un'eco di questo repertorio preletterario nei dipinti delle necropoli etrusche arcaiche.

E’ molto probabile che il più antico passato di Roma sia divenuto dunque, assai presto, materia "letteraria": antenati delle gentes, re, e soprattutto Romolo, il fondatore della città, tutti dovevano figurare, con le loro imprese, in questi rudimentali poemi.

Il metro utilizzato era probabilmente il "verso saturnio" (così chiamato a causa della leggenda secondo cui il dio Saturno sarebbe stato il primo mitico re del Lazio), del quale tuttavia non conosciamo che forme relativamente tarde e già "letterarie". Sembra che fosse composto di due membri ineguali, il primo formato in genere da tre parole (di due sillabe le due prime, di tre la terza), il secondo comprendente invece due parole di tre sillabe ciascuna (secondo il modello tramandatoci dal primo verso dell'Odyssia di Livio Andronico:


Virum, mihi, Camena / insece versutum
(Narrami Camena, l'uomo dalle mille imprese);


esistevano tuttavia altre combinazioni possibili, come risulta ad esempio dal verso di Nevio:


Fato Metelli Romae / fiunt consules
(Al fato si deve se a Roma i Metelli diventano consoli),


nel quale c'è una differente ripartizione delle parole di due e tre sillabe.

La recitazione veniva accompagnata con la lira, che scandiva il metro. L'influenza esercitata da questi "canti conviviali" sulla letteratura latina non si lascia cogliere agevolmente. Un tempo si supponeva che essi avessero costituito la prima forma di storia e contribuito a formare le leggende che i critici moderni amavano, in passato, denunciare nella tradizione degli storici posteriori (soprattutto in Tito Livio). Oggi si è concordi nel ridurne l'importanza, e nel ritenere che si siano sviluppati ai margini della storia, senza peraltro sostituirsi ad essa.
E’ certo, tuttavia, che essi hanno preparato le varianti nazionali di due generi greci: l'epica romana e la fabula praetexta, rappresentazione drammatica che fa dei romani stessi i nuovi eroi della scena.


Quas inter vultu petulans Elegea propinquat
celsior adsueto divasque hortatur et ambit
alternum fultura pedem, decimamque videri
se cupit et medias fallit permixta sorores



Tra le nove muse l'Elegia si avvicina con volto superbo
allunga il collo più del normale, e richiama le dee e le blandisce
per potersi esprimere in distici, e desidera apparire
la decima, e cercando di confondersi in mezzo alle sorelle le fa sbagliare
Stazio, Sylvae, II, 2, 7-10

Elegiaci di età imperiale


Nel corso dell'alto impero il distico elegiaco è impiegato sempre più spesso per l'epigramma più che per l'elegia, che gradatamente sparisce dalla produzione letteraria dei primi secoli dell'impero in favore di forma prosastiche (storiografia, trattatistica tecnica) o di poesia di più alto registro (epica) adeguata all'encomio dei regnanti di turno.

Data questa premessa non sorprende particolarmente la quasi totale sparizione del genere elegiaco dalla produzione letteraria di età imperiale. In effetti nel corso del II e III secolo la produzione di poesia ricercò atmosfere rarefatte e funambolismi tecnici tipici della corrente dei poetae novelli: in alcuni carmi della Anthologia Latina compaiono distici elegiaci, ma più vicini all'epigramma che all'elegia. Altrettanto dicasi per i distici usati in alcuni degli opuscula di Ausonio o nel Carmen de ave Phoenice.
La produzione poetica di ispirazione cristiana, sorta a partire dal IV secolo, preferì gareggiare con i poeti:

epici


(Commodiano, Giovenco e altri)


lirici


(Prudenzio, Paolino di Nola e altri)


piuttosto che con gli elegiaci. Unica eccezione fu forse Orienzio.

Occorrerà attendere il poema di Claudio Rutilio Namaziano per rileggere una vera elegia di raffinatissimo stile classico: egli scrisse il De reditu suo in distici elegiaci, impregnando la poesia della nostalgia non per un amore travagliato, ma per il ricordo della perduta grandezza dell'impero romano che andava sgretolandosi sotto i suoi occhi.


Elegie neolatine


Nel periodo tra la caduta dell'impero romano e la riscoperta dei classici attuata dagli Umanisti i poeti elegiaci classici furono trasmessi frammentariamente con notevoli danneggiamenti e perdite, con l'importantissima eccezione di Ovidio.



Caratteristiche


Il genere elegiaco latino fu codificato nei suoi contenuti e nelle scelte stilistiche dai poeti di età augustea: di questo si rende conto anche per contrasto con gli imitatori successivi.


Stile


Già i poeti della letteratura latina arcaica, Quinto Ennio nelle Satire o Publio Terenzio Afro nei prologhi delle sue commedie avevano cominciato a scrivere in prima persona: ma fu Gaio Lucilio nelle sue Satire a fare della propria vita il centro delle proprie creazioni. Non è un caso che questo sia avvenuto in un periodo in cui si profilavano le avvisaglie dello scardinamento dell'antico sistema (nel 128 AC divamparono i disordini provocati dalle riforme graccane). I poeti della generazione a lui successiva vennero definiti senza mezzi termini novi, cioè rivoluzionari.

Per quanto si dichiari e spesso polemicamente autobiografica, l'elegia augustea tende ad inquadrare le singole esperienze in forme e situazioni tipiche e secondo modalità ricorrenti, creando un universo elegiaco, con ruoli e comportamenti convenzionali, un suo codice etico ed un'ideologia relativa ai suoi valori di base. Infatti, l’elegia è poesia d'amore, perché l'amore è per il poeta elegiaco esperienza unica e assoluta, che riempie l'esistenza e le dà senso; è la "perfetta forma di vita" da lui scelta, che contrappone orgogliosamente agli altri modelli etici.

L'elegia, dichiaratamente ribelle ai valori consolidati della tradizione (mos maiorum), di fatto li recupera e ne resta prigioniera, trasferendoli nel proprio universo. Come già in Catullo, la relazione d'amore, istituzionalmente irregolare (coinvolge solo cortigiane o donne "libere"), tende a configurarsi come legame coniugale, vincolato dalla fides, salvaguardato dalla pudicitia, diffidente della luxuria e delle raffinatezze cittadine.

La poesia romana di questo periodo si pone in competizione con i propri modelli e i poeti non puntano ad una emulazione formale ed espressiva come i poetae novi, ma ad una vera e propria sostituzione ai modelli: per l'elegia questo discorso non si applica, In particolare Tibullo e Sesto Properzio compiono una precisa scelta di poetica, consistente nel rifiuto della poesia elevata (secondo il modulo tradizionale della recusatio, in cui il poeta giustifica tale rifiuto come scelta obbligata, dovuta alla sua incapacità) in favore di una poesia leggera, caratterizzata da toni e contenuti ispirati all'immediatezza della passione.

L'elegia latina si ricollega a quella ellenistica e ne prosegue le tendenze quando ne evolve le forme incrociandola con le convenzioni di altri generi letterari. È questo fattore a rendere complessa l'analisi dell'elegia augustea e a confondere la storia del genere letterario con quella del suo metro, il distico elegiaco, piegato nel tempo a destinazioni molto contrastanti. Il passaggio dalla lirica latina a quella nei diversi linguaggi europee avrebbe definitivamente divaricato la dialettica tra forma e contenuto.



LA POESIA AMOROSA


La poesia d'amore nasce relativamente tardi nella letteratura latina: si afferma solo nel II sec. a.C., quando i Romani, concluse vittoriosamente le guerre in Oriente e in Grecia, allentano le preoccupazioni per l'interesse dello stato, trovando il tempo e l'animo per dedicarsi anche ai moti interni dell'animo, alla vicenda intima della vita, all'espressione dei sentimenti. Un atteggiamento, questo (tra l'altro), che spesso si pone in più o meno larvata polemica nei confronti del potere e della cultura ufficiali. I tempi nuovi permettono - insomma - di coltivare, oltre ai modi della scrittura adatti alla riflessione sul bene comune (come la storiografia, l'oratoria, il teatro, la satira, il poema epico e la tragedia), generi nuovi da dedicare, appunto, all'effusione dei sentimenti o alla ricerca dell'io.

Intorno a tali tematiche, si raccolgono già gl'intellettuali del circolo letterario di Lutazio Càtulo (ca. 150-87 a.C.), che dà vita ad una produzione di sapore individualistico, particolarmente elaborata nello stile. I poeti appartenenti a tale corrente sviluppano argomenti e forme della poesia ellenistica, rifacendosi soprattutto a Callimaco, come appare specificamente evidente da alcuni brevi componimenti di Valerio Edituo e dello stesso Càtulo. Il circolo nato intorno a quest'ultimo, non a caso detto "preneoteorico", ha dunque il merito di anticipare e preparare l’importante circolo dei "poeti novi" ("neoteroi"), scrittori colti, consapevolmente indirizzati a riprodurre nei metri e nei temi i grandi modelli della poesia alessandrina e dei lirici greci. In loro, anche l'atteggiamento di fronda sarà molto più palese.

Ma toccherà, invero, a Catullo il compito d'istituire un vero e proprio "topos" della poesia d'amore, legando la lirica latina al mondo dei sensi e della passione, e quindi avviando il filone della "malattia amorosa" e della "servitù d'amore". D'altronde, già Lucrezio aveva proposto, nel finale del IV libro del suo capolavoro, il tema dello sconvolgimento psicofisico che accompagna il "furor" degli amanti, restando però all'interno di un contesto filosofico, che neppure il vigoroso movimento delle immagini riesce ad emancipare dai parametri dell'atarassia epicurea.


In Catullo, invece, pur in assenza dell'effigie femminile, l'effetto di concretezza del rapporto risulta rafforzato a causa del realismo con cui sono presentati i sintomi dell'amore/malattia, che il poeta soffre sul proprio corpo con la perdita della voce, della vista e persino dell'udito, fino al deliquio (cfr. carme 51). Il poeta stesso è implicato nella storia che narra, e le sue parole hanno il sapore della dolorosa esperienza, arrivando alla fine a prospettare addirittura un legame insolito per la cultura romana : ovvero, egli nobilita l'intensità totalizzante e assoluta della passione con il rigore di un "patto" che vincola i due amanti, anche senza il matrimonio (!) (cfr. carme 87).
Sarà Catullo, insomma, il primo scrittore a sottrarre la poesia erotica dal clima leggero del gioco mercenario ed a mettere al centro la donna reale, con il suo carico di contraddizione e di infelicità. E ciò acquista tanto più valore, se è vero che nel I sec. a.C. l'epica, la tragedia e i generi filosofico-didascalici disapprovavano chiunque presentasse amori diversi da quelli improntati al nobile sentire.


Nel secolo di Augusto, Orazio continuerà a cantare l'amore, imitando anch'egli le fonti greche (come Alceo, Semonide di Amorgo o gli ellenistici), ma offrirà una sua visione, piuttosto leggera e malinconica, del sentimento amoroso, tributando a Catullo solo il debito di qualche "citazione" colta. Tuttavia, Catullo "sarà maestro per la generazione degli elegiaci, che da lui trarranno la concezione dell'amore come continua sofferenza e come consapevole scelta di vita"

Ciò sarà vero soprattutto per Tibullo e, ancor più, per Properzio: l'amore, presentato sempre più esplicitamente come motivo di vita, si fa in questi poeti materia privilegiata per il canto e per l'effusione dei sentimenti. Anzi, nelle loro "Elegie", trasparirà davvero un nuovo legame fra arte e vita: nella vita, il poeta si dedica alla donna, trascurando gli impegni pubblici; nell'arte, ricerca moduli adatti a cantare il suo sentimento totalizzante e assoluto: insomma, il rapporto sentimentale, che già in Catullo aveva trovato importanza e significato oltre il semplice gioco erotico o mondano, diventerà per loro genuina ricerca di valori etici e letterari. Certo, anch'essi prenderanno spunto (chi più, chi meno, chi con maggiore "realismo", chi con malcelato artificio) dalla loro "vera" vicenda amorosa, ma non si fermeranno alla mera esperienza: sapendo fin dall'inizio che la loro storia non sarà solo ricca di gioia, cercheranno prontamente di delineare una "teorica dell'amore": chi vive come "fedele d'amore", anche se infelice, compie una scelta difficile, ma superiore a quella di chi intraprende la carriera politica o militare. È dunque meglio rinunciare agli onori delle cariche o alle ricchezze, e lasciarsi soggiogare dalla tirannia dell'amata; e le loro amate esercitano davvero un duro dominio, costringendo i poeti a una pesante "schiavitù", in un rapporto dove l'amore, pian piano, si spoglierà di ogni idealizzazione sentimentale.


Questo processo di "disillusione" e "disincanto" troverà il suo felice epilogo in Ovidio: alto valore reattivo di scandalo avranno le sue opere, a Roma: in esse, il rapporto amoroso subirà un' "urbanizzazione" che ne invertirà i termini (la donna è ancora "domina", ma il suo ruolo è fittizio o quantomeno "passivo", dipendendo il tutto dall'abilità e dalla "disponibilità" dell'amante maschio) e ne sovvertirà i motivi: si preferirà, cioè, l'innamoramento all'amore vero e proprio, laddove lo stesso innamoramento non è genuino germoglio di passione, quanto piuttosto puro gioco, levantino ma gioioso, di conquista e di seduzione, di cui il poeta, con un malizioso riferimento alla propria esperienza (non certo dolorosa come quella degli elegiaci…) si propone d'insegnare tecniche e strategie, eleggendosi a vero prescelto di Eros




IL FESCENNINO


Il Fescennino é una festa celebrata in occasione delle scadenze principali della vita contadina (la vendemmia, la raccolta del grano ecc.) era improntata sullo scherno, e la canzonatura degli altri vendemmiatori o mietitori. L’etimologia del termine sembra infatti poter risalire anche al latino fascinatium, malocchio, quello gettato agli altri carri incolonnati e carichi di uva in occasione della vendemmia. Da tali atteggiamenti e dalle caratteristiche di questa festa popolare ha preso origine la drammaturgia latina.


L’ATELLANA.


Per atellane si intendono le improvvisazioni di breve durata (forse addirittura semplici chiusure delle rappresentazioni) di contenuto farsesco che si rappresentavano ad Atella, città osca della Campania. Le rappresentazioni erano caratterizzate dalla presenza di personaggi fissi con proprie maschere e propri costumi. Il genere dell’Atellana, di probabile derivazione dalla farsa fliacica, fu introdotto a Roma nella prima metà del III secolo a.C..

Le Atellane riproponevano quattro personaggi fissi in tutte le rappresentazioni:

Pappus, il vecchio sciocco;

Maccus, il tipo dello scemo maltrattato;

Dossenus, il gobbo furbo e imbroglione;

Bucco, insaziabile e maleducato.

Tali personaggi avevano anche una loro maschera e un loro costume caratteristico.


IL MIMO.


Il mimo era una forma drammaticata di breve durata che in alcuni casi si trasformava in spettacolo vero e proprio. Molto amato dai romani questo genere rifletteva il gusto del tempo incline alla violenza e alle scene di lotta.




LA COMMEDIA ROMANA.


La commedia romana sembra non discostarsi minimamente dalla commedia nuova greca, se non che per poche innovazioni: l’eliminazione del coro (ripristinato solo successivamente dagli editori); l’introduzione dell’accompagnamento musicale, peraltro probabile retaggio della tradizione etrusca.

Questo tipo di commedia veniva definita fabula palliata. Accanto a questa ne esisteva anche un altro la fabula togata, di contenuto e ambientazione romana.




LA TRAGEDIA ROMANA.


Il genere della tragedia, molto apprezzato dal pubblico, fu completamente ripreso dai modelli greci e definito dai romani fabula crepidata. Gli unici autori di cui si abbia memoria (ma non i testi) sono Quinto Ennio (239 - 189), Marco Pacuvio (c.220 - c.132) e Lucio Accio (170 - c. 90).
Le tragedie romane che ci sono pervenute risalgono ad un periodo successivo, compreso tra il 30 e il 60 d.C., per lo più opera di Seneca.




GLI ATTORI.


La professione dell’attore godette sicuramente di un grosso prestigio in Grecia, ma certamente non a Roma, dove sembra venisse demandata agli schiavi che erano al servizio del direttore della compagnia. Questo fu quasi certamente vero almeno fino a quando Roscio, il più grande attore della romanità, non riuscì a riabilitare tale professione. Gli attori comunque si dividevano in due categorie principali gli histriones e i mimi.




I COSTUMI.


I costumi cambiavano a seconda del genere teatrale: commedia, tragedia e atellana. Per tutte le rappresentazioni di ambientazione greca gli attori vestivano abiti ateniesi, mentre per quelle di ambientazione romana indossavano la classica toga romana.




LE MASCHERE.


Le maschere romane, sul modello di quelle greche, erano di tela con applicata una capigliatura.
L’uso delle maschere facilitava l’interpretazione degli attori che dovevano impersonare più ruoli o personaggi di aspetto simile (I Gemelli o l’Anfitrione di Plauto). Nel teatro dei mimi la maschera invece non esisteva, e vista la popolarità di questo genere man mano la maschera scomparve dal teatro romano.




LA MUSICA.


La musica all’interno delle rappresentazioni romane aveva un ruolo fondamentale, che veniva svolto da un suonatore di flauto a due canne lungo circa 50 cm..

L’accompagnamento del musico aveva delle convenzioni rigide (il pubblico era in grado di capire il personaggio che sarebbe entrato, o casa sarebbe accaduto dalla sola musica di introduzione) e accompagnava lo spettacolo dall’inizio alla fine spostandosi, a volte, insieme ai personaggi.




GLI SPETTATORI.


Gli spettatori romani prediligevano rappresentazioni cruente con scene di violenza, spesso realistiche.

In occasione delle feste per l’inaugurazione dell’anfiteatro Flavio, per esempio, durante le rappresentazioni avvenne che nelle scene di crocifissione lo schiavo cristiano si sostituì all’attore e quindi moriva realmente. Caratteristiche di verosimiglianza e di violenza completamente inesistenti, invece, nel teatro greco.




L’EDIFICIO SCENICO.


I romani cominciarono a costruire veri e propri edifici teatrali soltanto nel 30 a.C., prima di questa data le strutture che ospitavano gli spettacoli erano provvisorie appositamente costruite per i diversi eventi. I primi teatri stabili, comunque, riproducono più o meno la struttura dei teatri greci anche se con alcune modifiche.

La passione dei romani per generi di spettacolo molto importanti e "ingombranti", rese ben presto necessaria la creazione di luoghi adeguati che potessero ospitarli. Tale necessità è evidentemente all’origine della ideazione e costruzione degli Anfiteatri il cui maggiore esempio è per tutti l’Anfiteatro Flavio da .




LE SCENE.


Le notizie relative alla scenografia romana si basano sulle testimonianze del trattatista latino del I sec. a.C., Vitruvio. Da queste sembrerebbe che il teatro romano non presentasse una scenografia molto complessa, ma piuttosto erano gli attori che con i loro dialoghi evocavano ambienti e circostanze diverse.
Di sicuro gli elementi scenografici sempre presenti erano:
la scenae fronts, i periaktoi e l’auleum.

La scenae fronts è costituita da un’architettura simile alla facciata di un edificio, nella quale si aprono diversi ingressi utilizzati dagli attori.

I periaktoi, di derivazione greca, erano prismi triangolari ruotabili con i lati dipinti, secondo Vitruvio, con una scena tragica su un lato, comica su un altro e satiresca sul terzo.

L’auleum era un telo simile al nostro attuale sipario che consentiva di rivelare improvvisamente, lasciato cadere dall’alto, una nuova scena. Negli anfiteatri gli effetti speciali erano realizzati con l’utilizzo di macchine teatrali, anche queste di derivazione greca.
Uno degli effetti più sensazionali e graditi erano le scene di massa affollate da personaggi e animali.




LE RICORRENZE PRINCIPALI DEL TEATRO ROMANO.


Anche a Roma, come in Grecia, la maggior parte dell’attività teatrale si svolgeva nel corso delle feste di carattere religioso e, anche se più raramente, in occasione di vittorie militari, consacrazione di pubblici edifici, o per i funerali di importanti personalità.

Gli antichi romani, per la verità non molto diversamente dai romani "moderni", dedicavano alle diverse divinità alcuni giorni fissi dell’anno durante i quali organizzavano spettacoli e celebrazioni.

Definivano tali periodi Ludi accompagnati da un aggettivo che derivava o richiamava in qualche modo la divinità che si celebrava, come ad esempio i Ludi Florales, i Ludi Apollinares, Ludi Megalenses e Ludi Cereales durante i quali veniva peraltro dato particolare rilievo agli spettacoli teatrali. C’erano poi durante i mesi di settembre e novembre i Ludi in onore di Giove rispettivamente denominati Romani e Plebei anche questi occasione di festa, divertimento e quindi spettacoli.



Primaflora, il saggio dalla doppia personalità
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