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Compendio di Filosofia

Ultimo Aggiornamento: 29/03/2010 17:15
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29/03/2010 17:14

Prima parte
."...se non avessimo mai visto le stelle, il sole, il cielo, nessuna delle parole da noi pronunciate sull'universo sarebbero state profferite. Ma ora la vista del giorno e della notte, ed i mesi e la rivoluzione degli anni hanno creato il numero e ci hanno dato una concezione del tempo nonchè la facoltà di indagare sulla natura dell'universo e da questa fonte ci è venuta la filosofia che è il massimo dono che mai fu o sarà concesso dagli dei all'uomo mortale."
Platone (Timeo, 47 c)



Che cos'è la filosofia?



Una delle principali caratteristiche della filosofia è quella per cui essa cerca di far superare all'uomo le sue paure e di condurlo per una strada che lo porti alla libertà, in modo che possa giungere alla meta più ambita della filosofia stessa: la verità.

Possiamo quindi definire la filosofia, già da subito, come la ricerca disinteressata della verità. Sottolineerei l'aggettivo "disinteressata". Non esiste nessun'altra attività o forma di sapere che sia altrettanto "disinteressata" come la filosofia, giacché essa non ha alcun altro scopo se non la conoscenza per "amore della conoscenza stessa". Non per nulla, la parola "filosofia" - come probabilmente saprete vuol dire in greco "amore per il sapere".

Il filosofo è dunque colui che ama e desidera conoscere la verità per amore della verità stessa, nel senso più alto e disinteressato del termine.

A lui non interessa la verità per strumentalizzarla ad un fine qualunque (denaro, potere, felicità, immortalità ecc.) bensì per la sola ed esclusiva esigenza di verità e sete di conoscenza.
Essa può anche riguardare quelle cose se nel suo cammino si imbatte in esse ma non è affatto detto che essa debba per forza scoprire chissà che o tendere ad una scienza esoterica. La ricerca della verità è nello stesso tempo più ampia e più umile: non pretende nulla e non inizia il suo cammino sapendo già dove vuole arrivare; al contrario, non sa proprio dove la porterà la sua ricerca.

La filosofia, essendo una ricerca disinteressata, potrebbe fare, paura a molti.
In primo luogo, a tutte quelle persone che hanno o seguono ideologie o credenze assolutistiche o totalitaristiche, perché esse vogliono imporre la loro visione del mondo a scapito di tutte le altre. Mentre la ricerca libera e disinteressata non esclude le altre prospettive ma si confronta con esse nel cammino comune verso il valore ideale della verità.

In secondo luogo, la filosofia può fare paura ed essere rifiutata da tutti coloro che si ostinano nelle loro credenze ritenendo di avere la verità in tasca e non ammettendo di potersi sbagliare.
La filosofia può invece insegnare loro che il cammino verso la verità è lungo e difficile, che bisogna avere il coraggio e la forza di decentrarci, di uscire da noi stessi, di porci in ascolto degli altri (la filosofia è una scuola di tolleranza), in modo di non considerarci l'Assoluto ma di ritenere la propria prospettiva una delle tante e non l'unica completa e vera.

La filosofia, in altri termini, implica il riconoscimento dei propri limiti, l'accettazione del nostro essere uomini e dunque soggetti a sbagliare, ma anche l'accettazione che lo sforzo comune nella ricerca della libertà e della verità è fondamentale per la sua realizzazione.

In terzo luogo, la filosofia può far paura a tutti coloro i quali rifiutano di "conoscere se stessi", di porsi i problemi fondamentali e di dare loro una risposta (chiedersi: che cos'è l'uomo?esistono gli Dei? c'è qualcosa dopo la morte? cos'è il bene e il male? ecc.) per adagiarsi in un menefreghismo superficiale facendo finta di nulla.
Purtroppo, però, nelle situazioni-limite dell'esistenza, che toccano prima o poi ogni essere umano, quelle domande ritornano incessanti e non riusciamo a sfuggirle. Quando si è soli, quando si è tristi, quando muore qualche persona cara ci dobbiamo necessariamente confrontare col nostro io più profondo, ed allora sarà quasi con terrore che riconosceremo di aver sprecato molto del nostro tempo, cercando di imbottirci la testa con pregiudizi e teorie già confezionate, risposte pronte ma che non abbiamo mai realmente sottoposte ad esame e fatte realmente nostre poiché non le abbiamo praticamente mai vissute. La filosofia può aiutare a liberarci dal modo inautentico in cui abbiamo fino a quel momento vissuto per farci cominciare da capo, per farci voltare pagina, per iniziare una vita nuova, più sincera, per cominciare l'avventura della conoscenza verso la nostra più autentica e vissuta verità.


La storia della filosofia è la storia affascinante delle risposte che l'uomo ha dato, nel corso di più di due millenni di storia, a tutti gli interrogativi che la mente umana si è posta ed a cui ha tentato di rispondere. Partiremo dalle origini in Grecia .
Vedremo molti filosofi, conosceremo le loro idee e ci stupiremo forse della loro verità.


Ma non ci deve colpire tanto la diversità fra le loro teorie quanto piuttosto il fatto che siano riusciti ad elaborare sistemi di pensiero così diversificati. Ma vi rendete conto? Non è bello riconoscere la varietà delle alternative? Ammettere la molteplicità delle risposte ad uno stesso problema non è forse un arricchimento? Ciò non rivela forse che le mille e più prospettive elaborate dagli uomini non riusciranno comunque mai a colmare l'abisso della Verità, che rimarrà il valore ideale a cui tendere sempre? Non dovremmo dunque essere né scoraggiati né dimostrare scetticismo nei confronti della varietà delle filosofie umane ma anzi considerarla una ricchezza enorme.
Il fatto che il nostro bisogno della Risposta assoluta sia destinato a non essere mai del tutto soddisfatto, non rivela paradossalmente il fallimento della ricerca ma al contrario la vita stessa della filosofia: se infatti si potesse raggiungere il fondamento ultimo, la ricerca cesserebbe e la nostra conoscenza finirebbe.


Ma ciò non è appunto possibile ed è questo il bello della filosofia: continuare incessantemente a porsi domande, ricercare instancabilmente, liberamente, senza paura di affrontare questioni difficili o assurde o proibite, per quanto possano apparire tali. Non aver paura di pensare, osare conoscere, partendo dalla accettazione dei nostri limiti umani.

Ad alcuni potrà sembrare inutile questo continuo interrogarsi senza accontentarsi di quello che è già stato ottenuto, dei risultati già raggiunti ma, direi, è solo grazie a quel non accontentarsi mai che l'uomo ha potuto progredire e non si è fermato all'età della pietra. Si dirà che il sapere ha prodotto cose molto brutte come la bomba atomica. Però non è la ricerca e la conoscenza della verità in sé ma è stato l'uso sbagliato che ne ha fatto a volte l'uomo che ha provocato degli effetti disastrosi. La conoscenza può essere usata per il bene e per il male: spetta all'uomo, alla sua terribile libertà, decidere quale strada intraprendere.


Filosofare vuol dire, ancora, assumere un atteggiamento di meraviglia nei confronti di quello che c'è e ci è dato. In altre parole, la filosofia vuole cogliere l'esistenza come tale. Si meraviglia, si stupisce che le cose esistano: insomma, è meravigliarsi perché qualcosa c'è mentre potrebbe non esserci nulla. E' un rapporto dunque sui generis, fatto di stupore e di gratuità, nei confronti dell'essere delle cose e del mondo. La realtà è "meravigliosa", le cose hanno bisogno di una spiegazione e ciò spinge l'uomo alla ricerca e stimola la sua riflessione. In fondo, la filosofia è solo questo: ragionare correttamente su quello che esiste.


La filosofia comincia quindi dall'esperienza della meraviglia, dal chiedersi perché le cose esistono, e procede, con l'astrazione, fino ad arrivare a formulare delle risposte a quei perché.

La filosofia e la scienza (o meglio le scienze) hanno entrambe come scopo la conoscenza, però la filosofia si distingue dalla scienza perché vuole essere lo studio della realtà nella sua totalità mentre le scienze studiano ambiti particolari della realtà. Il che ci porta a dire che la filosofia è essenzialmente metafisica, cioè ricerca del senso profondo delle cose e del significato della nostra stessa esistenza. Infatti nella totalità - oggetto di studio della filosofia - ci sono dentro anch'io e perciò risolvere il problema del Tutto vuol dire risolvere anche il problema dell'uomo, del valore della vita, della mia vita. Ecco perché è inevitabile porsi, in quanto esseri umani, i problemi metafisici fondamentali: perché esistiamo? per quale fine noi e il mondo esistiamo?





LA FILOSOFIA, LE SUE ORIGINI



Quali furono le condizioni che permisero la nascita di quella che fu chiamata filosofia?

Partiamo anzitutto dal nome stesso. Secondo una tradizione riportata, tra gli altri, da Diogene Laerzio, Pitagora per primo avrebbe usato la parola filosofia in un significato specifico.


"Era solito dire che la vita è simile ad una panegiria: come infatti alcuni partecipano a questa per lottare, altri per commerciare, altri ancora - e sono i migliori - per assistervi, così nella vita, diceva, alcuni ancora nascono schiavi della gloria e cacciatori di guadagno, altri filosofi avidi della verità" (Vite dei filosofi, VIII, .


La filosofia fu dunque vista come un'attività disinteressata volta alla ricerca della verità. In altri termini, la conoscenza fu per i Greci il massimo valore della vita. E allora, accennando alla sapienza e alla saggezza
(filosofia = amore per la sapienza) non ci si può non soffermare sulla figura del sapiente, che era così importante nell'antichità.

Ma come era visto, allora, il sapiente?

Il sapiente era colui che gettava luce nell'oscurità, colui che scioglieva gli enigmi, colui che manifestava l'ignoto e precisava l'incerto. solo colui che scioglie l'enigma può salvare se stesso: la conoscenza è l'istanza ultima, rispetto alla quale si combatte la lotta suprema da parte dell'uomo.
L'arma decisiva è la sapienza. E la lotta è mortale. Si pensi al mito della Sfinge: essa, mostro in forma di leonessa alata col volto da donna, proponeva a tutti un enigma e uccideva chi non fosse riuscito a rispondere esattamente. L'enigma diceva: "C'è sulla terra un animale che può avere quattro , due o anche tre gambe ed è sempre chiamato con lo stesso nome". Solo Edipo riuscì a risolverlo: è l'uomo, che nell'infanzia va a carponi e nella vecchiaia usa una terza gamba, il bastone.
La Sfinge allora si uccise ed Edipo fu acclamato il salvatore di Tebe. Che cosa indica tutto questo?


Indica che il sapiente è colui che riesce a capire qualche cosa che appartiene in genere all'ambito del divino, del misterioso, qualcosa che è nascosto agli uomini.


La verità , in altri termini, appartiene all'ambito del divino e non è data agli uomini se non in momenti o in luoghi particolari. Si pensi agli oracoli dell'antichità.


L'oracolo di Delfi, forse il più famoso della Grecia, quando era interrogato dagli uomini, non diceva tutto apertamente ma neppure nascondeva del tutto: parlava accennando.


L'oscurità del responso dell'oracolo alludeva al divario enorme che vi è tra la sfera dell'umano e quella del divino. Gli dèi, a quanto pare, amano gli enigmi e all'uomo non rimane altro che restare al gioco e cercare di svelarli.
Gli dèi accennano all'uomo di stare in guardia quando vuole conoscere la verità, giacché la sfera divina è sconfinata, insondabile, terribile per l'uomo, e l'unica manifestazione sopportabile per l'uomo è data dalla parola, parola che però, per essere appunto accettabile da parte dell'uomo, è necessariamente enigmatica e densa di un significato nascosto.
Inoltre la manifestazione della parola nel mondo umano non può che essere una norma di invito alla moderazione, al controllo, al limite, giacché la parola è il punto in cui la misteriosa e distaccata sfera divina entra in comunicazione con la sfera umana e si manifesta nella udibilità, cioè in una condizione sensibile, adatta all'uomo.
Il sapiente è allora colui che riesce a cogliere la parola divina, colui che riesce a cogliere la sua verità e cerca di trasmetterla agli altri uomini.
Ecco perché i sapienti parlavano poco e quando parlavano si esprimevano sinteticamente in detti che venivano poi trasmessi alle generazioni future, come ad es.


"Ottima è la misura" (di Cleobulo),
"Conosci te stesso" (attribuito a Talete, si trova sul frontone del tempio di Delfi, e Socrate la farà sua),
"Sappi cogliere l'opportunità" (Pittaco) ecc.


Per noi, oggi, le parole non contano poi molto: parliamo spesso e volentieri a vanvera, diciamo una cosa e poco dopo la smentiamo, senza preoccuparci se abbiamo ferito o no una persona con quello che abbiamo detto.
Nei tempi antichi non era così: la parola era "densa" di significato, era "qualcosa", aveva quasi una realtà a sé.
Tale pienezza verrà a poco a poco impoverita (lo vedremo con i Sofisti) e solo la filosofia cercherà di ricordare l'importanza della parola.


La filosofia nascerà come attività a sé quando diventerà quella parola che poggia esclusivamente su di sé, e che quindi non ha bisogno di fondarsi sulla autorità di chi parla (gli dèi o l'oracolo come nel pensiero mitico-religioso-sacro) e neppure sulla forza persuasiva della retorica che, con la deduzione, riesce a riscuotere dei consensi (lo vedremo quando parleremo dei Sofisti e di Socrate).


In altri termini, la filosofia vorrà essere l'imporsi di ciò che si manifesta così come si manifesta, cioè della a-letheia, della verità.
In greco a-letheia è il non-nascosto, quindi ciò che si mostra e, proprio perché si mostra, si impone a tutti, è da tutti riconosciuto come vero.
La verità filosofica non sarà, d'ora in poi, una semplice descrizione, come nella narrazione mitica, ma un sapere fondato e incontrovertibile, cioè tale che nessuna divinità e nessun uomo, per quanto grande sia la loro potenza o la quantità delle loro argomentazioni, potrà mai confutarlo.

Ma vi è ancora qualcos'altro alle origini della filosofia. Ricordiamo anzitutto la visione religiosa greca.
La vita umana è concepita entro i confini segnati dagli dèi e dal destino (Moira), a cui tutti devono sottostare (Cfr. Iliade, 8° , 1-52).


Il bene e il male, d'altra parte, non sono pensati anticamente come valori morali, concetti astratti: sono invece forze oggettive, potenze che convivono nell'universo e tra esse Zeus pone l'equilibrio. Felice dunque l'uomo a cui Zeus manda il bene, infelice l'uomo a cui Zeus manda i mali! Da questo punto di vista potrebbe sembrare che la religiosità greca sia essenzialmente all'insegna del pessimismo: l'esistenza umana è per definizione effimera ("l'uomo è il sogno di un'ombra", diceva Pindaro, 8° Pitica, 1 e sovraccarica di affanni, poi viene la morte che non risolve, del resto, proprio nulla. Per i contemporanei di Omero, la morte era infatti una sorta di post-esistenza, ridotta ed umiliante, nelle tenebre sotterranee dell'Ade, popolate da pallide ombre, prive di ogni forza e memoria. L'uomo insomma dispone solo di questa vita terrena e solo dei propri limiti, quelli che gli sono stati assegnati dalla sua condizione e, in particolare, dalla sua Moira (nella vita non si può pretendere di sapere qual è il fato di una persona e di agire a dispetto di esso. Nella vita, la credenza della Moira serve ad indicare che quanto è Moira deve accadere).


Eppure, proprio in questa situazione, l'uomo greco potrà intravedere una soluzione positiva: la saggezza, per l'uomo greco, comincerà infatti dalla coscienza della finitezza e della precarietà della vita, ed è questa la lezione di Omero: vivere totalmente ma nobilmente nel presente (l'eccellenza dell'eroe è onore, gloria, rispetto).
Dal momento che gli dèi hanno costretto l'uomo a non oltrepassare i propri limiti (si ricordino le massime "ottima è la misura", "nulla di troppo" ecc.), egli ricerca la perfezione e la sacralità nella e della vita. In altre parole, l'uomo greco ha riscoperto e perfezionato il senso religioso della gioia di vivere, il valore "sacramentale" dell'esperienza erotica e della bellezza del corpo umano, la valenza religiosa di ogni festeggiamento organizzato collettivamente (processioni, giochi, danze, canti, competizioni sportive, spettacoli, banchetti ecc.).
La gioia di vivere non fu un godimento di tipo profano :


rivela la beatitudine di esistere, di partecipare, anche in modo temporaneo, alla spontaneità della vita e alla grandiosità del mondo.



I Greci hanno forse capito che il mezzo più idoneo (per l'uomo) per sfuggire al tempo è quello di sfruttare sino in fondo la ricchezza - a prima vista insospettabile - dell'attimo sfuggente
.

Ed infine vi è la tragedia, che riveste un'importanza fondamentale per conoscere le condizioni che permisero la nascita e lo sviluppo della filosofia.
I Greci si ponevano di fronte al teatro in modo assai diverso dai moderni. Essi assistevano alla rappresentazione teatrale nel corso di una solenne festa religiosa, programmata e organizzata dallo Stato.
Per l'ateniese del 5° sec. a.C., nel teatro aveva luogo una esperienza politico-religiosa di grande importanza.
La realtà di cui lo "spettatore" fa esperienza nel teatro è altrettanto concreta e presente di quella della sua esistenza quotidiana.
Tuttavia non si identifica con quest'ultima: lo spettatore viene in qualche modo proiettato in una situazione capace di rivelare significati nuovi e più alti. E' la tradizione mitico-religiosa, non la storia vicina o contemporanea (con l'unica eccezione dei Persiani di Eschilo) né l'invenzione del poeta, a offrire alla tragedia i suoi temi. Occorre però chiarire meglio quale rapporto si instauri nella tragedia con la tradizione mitico-religiosa.

Quando la tragedia si afferma e istituzionalizza in Atene, il mondo del mito è già visto come distante, ma non ancora estraneo o insignificante. Ciò rende possibile , nella tragedia, la riattualizzazione del mito stesso e dei suoi significati.
E' una sorta di filtro attraverso il quale lo spettatore è chiamato a riflettere e ad interrogarsi su valori, credenze, istituzioni, sulla sua stessa esistenza.
E' di grande importanza, in questo senso, la figura dell'eroe mitico, di cui nella tragedia si fanno rivivere le peripezie e le sofferenze.


L'eroe mitico è problematico: vivono in lui qualità opposte come il coraggio, la fermezza, la capacità di soffrire, ma anche la violenza, la follia, l'orgogliosa tracotanza (o hybris, concetto importantissimo per i Greci!).


La situazione tragica è dunque fortemente dinamica: l'eroe tragico viene posto in situazioni-limite in cui tutto viene messo in gioco, in cui l'impegno è totale, e dunque è alle prese con la verità. E la verità tragica è contraddittoria: non è mai una, non è mai certa, data una volta per tutte, ma molteplice e mutevole. la tragedia rivela dunque la contraddittorietà e la non trasparenza della realtà e del rapporto dell'uomo con essa, e pone lo spettatore di fronte a questa scoperta.

Conflitti ed enigmi contrassegnano tutti i grandi temi della situazione tragica. Al centro sta il rapporto tra l'uomo e il divino. Ma nel "divino" dobbiamo comprendere non solo i vari dèi ma anche e soprattutto il complesso di quelle forze della cui ineluttabilità e imperscrutabilità l'eroe tragico fa esperienza e che sono nominate come il Destino.
In ogni momento l'eroe tragico si scontra con l'impossibilità di determinare autonomamente il corso degli eventi; in ogni sua azione egli si scopre "strumento" di una volontà superiore che non può controllare.


Progetti e intenzioni mostrano la loro fragilità di fronte all'imprevisto, rovesciandosi in effetti contrari a quelli voluti. Poiché l'origine dell'azione si colloca insieme nell'uomo e fuori di lui, lo stesso personaggio appare ora agente, causa e fonte dei suoi atti, ora elemento passivo, immerso in una forza che lo supera e lo trascina
.

Qual è allora il significato di questa tensione costantemente mantenuta dai tragici tra la spontaneità dell'eroe e il destino fissato dagli dèi?

Per la nostra cultura, la responsabilità personale è sempre associata alla consapevolezza, ad una scelta compiuta liberamente. Nella cultura greca arcaica, al contrario, si può essere colpevoli di atti compiuti senza consapevolezza, come mostra la figura dell'Edipo re di Sofocle che, senza saperlo, in forza della maledizione che grava sulla sua stirpe, uccide il padre e sposa la madre.

La consapevolezza tragica si costituisce così in un confronto costante tra l'antica concezione della colpa come macchia legata a tutta una stirpe, che si trasmette inesorabilmente di generazione in generazione sotto forma di ate, di una follia inviata dagli dèi, e la Moira, concezione in cui il colpevole si definisce come individuo che, senza esservi costretto, ha scelto deliberatamente di commettere un delitto, giacché la sua azione si inserisce in un ordine temporale sul quale egli non ha presa e che subisce. I suoi atti insomma gli sfuggono, lo superano.


Per i Greci dell'età classica, l'azione si rivela - senza il soccorso degli dèi - illusoria, vana, impotente. Le manca il possesso di quella forza di realizzazione, di quella efficacia di cui solo la divinità ha il privilegio. La tragedia esprime quella debolezza dell'azione, quella povertà interiore dell'agente, facendo apparire, dietro agli uomini, gli dèi all'opera da un capo all'altro del dramma, per condurre ogni cosa al suo termine.


Nel conflitto tra individuo e destino, libertà e necessità, innocenza e colpa, la tragedia rappresenta il dolore come nota dominante dell'esistenza. I personaggi tragici soffrono e la partecipazione alla sofferenza appartiene anche allo spettatore.

Ma la tragedia pone anche un forte legame tra dolore e conoscenza: l'eroe tragico soffre consapevolmente; non solo: attraverso il dolore si genera conoscenza e questo vale sia per i personaggi sulla scena che per il pubblico in teatro. L'antico detto di Esiodo, "solo soffrendo lo stolto impara", diventa il senso fondamentale dell'esperienza tragica: nel dolore l'uomo acquista la consapevolezza di ciò che è, del carattere conflittuale ed enigmatico della realtà e della sua vita.


La tragedia doveva avere - teorizzerà Aristotele nella Poetica - un esito catartico (= di purificazione): contemplare le vicende umane raccontate nel mito, vedere la crudeltà della vita, conduceva gli uomini ad assumere un atteggiamento di equilibrio, né depressione nella sofferenza né superbia nel successo
.

Tutto questo lo ritroveremo nella filosofia: accettazione della vita, esaltazione della moderazione e della misura per trovare la felicità; oltre agli interrogativi, allo stupore, al crollo delle illusioni, alla ricerca della verità. Non per nulla la polis del vecchio Eschilo, di Sofocle e di Euripide è anche quella dei primi filosofi e dei Sofisti

Quando si leggono le prime pagine dei manuali di filosofia, si può rimanere un po' "delusi" dal fatto che i primi filosofi, quelli chiamati tradizionalmente Presocratici o Presofisti, parlino ancora di cose semplici come l'acqua, l'aria, il fuoco ecc. per cercare di spiegare l'origine del mondo e diano inoltre risposte molto diverse tra loro sui principi che regolano l'universo.
Eppure, dai pochi frammenti che ci sono rimasti (bisognerà aspettare Platone per avere le opere complete di un filosofo) possiamo intuire che la loro grandezza è consistita nell'aver capito, per la prima volta nella storia, che le cose stesse sembrano guidare il pensiero a gettare uno sguardo al di là di ciò che si vede con i sensi, per cogliere qualcosa di più vero, e che pure sta in esse. Essi ricercano quello che chiamarono l'arché, il primo principio, che era per loro physis, cioè quel certo essere che permane nelle cose, che semmai le fa trasformare ma rimanendo sempre lo stesso. E' la complessità di tale ricerca che spiega la diversità delle risposte dei Presocratici. Quello che sostengono è quanto essi hanno faticosamente elaborato nella loro meditazione, fidando solo nella forza del loro intelletto e della loro ragione. Ricordiamo i principali:Talete, Anassimandro, Anassimene, Eraclito, Parmenide, Empedocle, Anassagora, Democrito.



Riguardo agli dèi, non ho la possibilità di accertare nè che sono, nè che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l'oscurità dell'argomento e la brevità della vita umana." (Protagora)



Primaflora, il saggio dalla doppia personalità
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29/03/2010 17:15

Seconda parte
I PRIMI FILOSOFI
I primi filosofi

Terra, aria, acqua e fuoco: gli antichi principi della natura



Talete di Mileto
Per Talete l'acqua è il principio di tutte le cose



La sua akmè fu fissata nel 585 a.C. dal cronologo Apollodoro (150 a.C.), il quale, per fissare le date prendeva come punto di riferimento l'impresa maggiore di un pensatore e la faceva coincidere col 40° anno di vita: l’impresa ritenuta più grande di Talete fu la predizione di una eclisse di Sole avvenuta appunto nel 585 a.C.
Secondo quanto ci racconta Aristotele, per primo affermò l'esistenza di un principio (a proposito, la parola principio è di Anassimandro) universale, causa di tutte le cose che sono, e disse che questo principio è l'acqua.


L'acqua di Talete vuole essere del tutto diversa dall'Oceano mitico di Omero perché essa è intesa come l'identità del diverso (ossia ciò che vi è di identico in ognuna delle diverse cose), il principio da cui provengono e in cui ritornano tutte le cose, come appunto l'acqua del mare che è tanto ciò che tutte le onde hanno di identico, quanto ciò da cui le onde provengono e in cui tornano
.

La superiorità di Talete rispetto alla visione mitologica sta nell'orizzonte che la sua domanda dischiude, non tanto nella risposta che dà, visto che essendo l’acqua una tra le molte cose, non potrebbe essere quello che tutte le cose hanno di identico. Di lui ci sono tramandate altre imprese e alcuni aneddoti, che ci vengono riferiti, tra gli altri, da Diogene Laerzio (cfr. I, 22-44).




Anassimandro
Per Anassimandro l'à-peiron è il principio di tutte le cose



Dopo Talete, Anassimandro (nato verso il 610 a.C.) considera come arché l'a-peiron, cioè il non-limitato, il non-finito, il non-particolare, il non-misurabile.
Il "progresso", rispetto al precedente, consiste nel fatto che definire l'arché come una cosa, quale è l'acqua, sarebbe limitare il principio; e siccome tutte le cose sono limitate, il principio da cui esse derivano non potrà che essere non-limitato, apeiron appunto.


Apeiron per Anassimandro è ciò che sfugge al numero, alla misura, al limite, per cui vi sono due ordini di cose: da un lato l’ordine dell’apeiron, che contiene ogni opposizione e, così contenendo, si pone quasi come originaria unità degli opposti; dall’altro l’ordine del tempo, dove ogni cosa si presenta come una "prevaricazione" sulle altre, che si incaricano di farle pagare il "fio" della sua "ingiustizia", dissolvendola e facendola tornare nell’unità originaria dell’apeiron. Così ad esempio il giorno sopraggiunge prevaricando la notte, la quale si dissolve ma da cui sarà poi dissolto
.

Anassimandro viene ricordato anche per essere stato tra i primi ad aver elaborato una carta geografica del mondo allora conosciuto (la Terra era da lui concepita come un cilindro sospeso nel vuoto) ed aver inventato un orologio solare
.



Anassimene
Secondo Anassimene è l'aria il principio del mondo



Anassimene (fiorì verso il 546-45 a.C.) conferirà una qualche positività al principio che Anassimandro aveva connotato in termini solo negativi. Per lui dunque l'arché è l'aria: l'aria è l'apeiron che, rarefacendosi e condensandosi, dà origine a tutte le cose.
Egli porterà alla luce un concetto decisivo per lo sviluppo ulteriore del pensiero greco: il concetto di causa (aitìa). Il mondo greco usava quella parola in senso morale, infatti indicava la colpa.


Con Anassimene la nozione di causa entra in un contesto che oggi diremmo scientifico, per cui le categorie di colpa e di pena cedono a quelle di causa ed effetto, così decisive nel modo occidentale di pensare. Anche l'arché non è più solo la sostanza di cui le cose sono fatte, ma sarà il principio della azione, cioè diventerà la causa efficiente (come la chiamerà molto più tardi Aristotele) che determina la trasformazione delle cose. Parlando di rarefazione e condensazione, Anassimene è ora in grado di spiegare la differenza qualitativa tra le cose, a partire dalla differenza quantitativa del principio originario
.



Eraclito di Efeso
Per Eraclito il fuoco è il simbolo del divenire



Eraclito di Efeso (6°-5° sec. a.C.) è l’autore di frammenti conosciutissimi: "non si può discendere due volte nello stesso fiume"(fr. B 91); "noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo"(fr. B 49) ecc.

Il senso dovrebbe essere abbastanza chiaro: il fiume è sempre lo stesso ma non sono sempre le stesse le acque che lo percorrono, così come chi si immerge in momenti diversi non è più lo stesso.


Ma la filosofia di Eraclito non si riduce alla semplice dichiarazione del flusso universale delle cose, del "tutto scorre" (panta rei), scorge nel divenire gli opposti entro cui lo stesso divenire accade :

"Le cose fredde si riscaldano, le cose calde si raffreddano"(fr. B 126).

L’identità delle cose viene colta nella opposizione come tale, la quale consente alle cose di diversificarsi dalle altre, trovando appunto in questa diversificazione la loro identità.
In questo senso il conflitto, la guerra (pólemos) in cui ogni cosa consiste e da cui è generata, può ben dirsi

"madre di tutte le cose e di tutte regina"(fr. B 53).

Ciò che le cose hanno di identico è la contrapposizione stessa di ogni cosa alle altre; ciò che hanno in comune è quella contesa, che consente ad ogni cosa di essere ciò che è. Infatti, se la vita non si opponesse alla morte, il caldo al freddo ecc., non esisterebbe vita, caldo ecc. Ed è per questo che Eraclito può dire che l’opposizione è il principio stesso della armonia nascosta presente in tutte le cose. Se dunque le cose hanno realtà in quanto divengono, e se il divenire è dato dagli opposti che, contrastandosi, si pacificano in superiore armonia, nella sintesi degli opposti sta quel principio che spiega tutta la realtà e che Eraclito chiama "Dio". In un altro frammento, Eraclito scrive che

"questo mondo, che è lo stesso per tutti, nessuno degli dèi o degli uomini l’ha creato, ma sempre fu, è e sarà fuoco eternamente vivo che con ordine regolare si accende e con ordine regolare si spegne"(fr. B 30).

Il fuoco di cui parla Eraclito è un’espressione che dice le caratteristiche del perenne divenire, dell’opposizione e dell’armonia. Il fuoco diventa la metafora dell’Uno inteso come quella dinamica unità per cui

"da tutte le cose l’Uno e dall’Uno tutte le cose"(fr. B 10).

Questa è la legge che il logos, la parola che ha in vista la verità e non le opinioni degli uomini, enuncia.

Il Logos è la parola che si offre all’ascolto di tutti, ma i più non la sentono perché "come dormienti" si concedono alle loro opinioni private che, come "giochi di fanciulli", lasciano fuori dalla verità delle cose. Nel loro sogno, i più non comprendono che il contrasto tra le cose è la stessa condizione della loro armonia.


Il filosofo dice cose vere perché sta in ascolto del Logos, a differenza di coloro che conoscono un gran numero di cose ma non la legge che le governa



Parmenide di Elea
Rovine greche



Parmenide di Elea (fine del 6° sec. a.C.) occupa una posizione centrale, insieme ad Eraclito, tra i filosofi presocratici.
Egli scrisse un poema denominato genericamente Sulla natura di cui possediamo 154 versi. In esso Parmenide parla di diverse vie per attingere alla verità.


La via della verità è tracciata dal principio che dice: l’essere è, e non può non essere. Se l’essere è, non può essere generato, né andare distrutto, perché altrimenti prima di essere generato e dopo essere distrutto, non sarebbe, e affermare che l’essere non è, è proibito dalla verità. Quindi l’essere è immutabile ed eterno e la Giustizia proibisce che in qualsiasi modo divenga. L’essere è dunque ciò che è identico in ogni cosa che è; è ciò che opponendosi al nulla, esprime il significato supremo dell’opposizione e, per effetto dell’opposizione, si costituisce come unità
.

Si tratta di una unità che non ospita né il divenire delle cose, né la loro molteplicità. Dire infatti che una cosa diviene significa dire che passa dall’essere al non-essere, e quindi significa affermare che il non-essere è. La convinzione che il divenire e il molteplice esistono è l’opinione illusoria (doxa) dei mortali, da cui la dea, che invita a percorrere il sentiero del giorno, la via della verità, tiene lontani.
L’essere di Parmenide è indifferenziato, indeterminato, semplice e puro, mentre il mondo che ci sta dinanzi nella sua incessante mutazione e varietà è doxa, ossia apparenza illusoria in cui i mortali pongono fiducia. Con Parmenide la filosofia si presenta come sfida al comune modo di pensare degli uomini e, contrapponendo la via della verità (aletheia) alla verità dell’opinione (doxa) apre quella antitesi fra ragione ed esperienza che altri tenteranno di risolvere
.


Empedocle di Agrigento
I quattro elementi di Empedocle: terra, aria, acqua e fuoco



Epedocle di Agrigento (490-430 a.C.) è il primo pensatore che cerca di risolvere l’antitesi aperta da Parmenide.


Nascita e morte sono per lui mescolanza e dissoluzione di determinate sostanze che sono ingenerate e indistruttibili e quindi che permangono eternamente uguali. Queste sostanze sono quattro: acqua, terra, aria e fuoco, ed Empedocle le chiama "radici di tutte le cose". Empedocle inoltre chiama Amicizia la forza che tiene unite le quattro radici, e Contesa la forza che separa le une dalle altre radici producendo il divenire cosmico
.

Con Empedocle diventa esplicita la nozione di elemento (stoicheion), inteso come qualcosa di originario e qualitativamente immutabile che produce la molteplicità delle cose col suo diverso modo di combinarsi e separarsi dagli altri elementi, altrettanto immutabili nelle loro qualità.


Empedocle ritiene che il divenire dell’universo sia ciclico, una sorta di eterno ritorno che culmina ad un estremo col caos (tutte le cose sono confuse) e dall’altro con lo sfero, in cui tutte le cose sono armonizzate
.



Anassagora di Clazomene
Rovine greche



Anassagora di Clazomene (nato verso il 500 a.C.)


ritiene che di nessuna cosa si possa dire che nasca o muoia, ma solo che si compone e si separa. Non solo, ma poiché un ente può diventare qualsiasi altro ente (ad es. il cibo diventa carne, e la carne, con la morte, diventa acqua e terra), in ogni ente vi è già tutto ciò che esso può diventare, e quindi in ogni ente vi è il tutto
.

Gli elementi non sono per Anassagora solo le quattro radici, bensì tutte le cose presenti in ogni cosa, sotto forma di particelle invisibili che egli chiama semi (spermata), e che Aristotele tramanderà col nome di omeomerie in quanto sono simili al tutto che costituiscono.


La differenza tra le cose è determinata dal prevalere dei semi di un certo tipo rispetto ad altri tipi. Spiegata la molteplicità con la prevalenza di omeomerie dello stesso tipo, Anassagora spiega il divenire come dispersione e ricomposizione delle unioni di omeomerie.
Quando le omeomerie si raccolgono sono visibili ai nostri sensi, quando invece si disperdono, si sottraggono alla visione
.

A presiedere la composizione e scomposizione delle omeomerie Anassagora pone una Mente (Nous) che è l’unico ente in cui non vi è mescolanza e, per questa sua purezza, può conoscere e dominare il tutto.

Anassagora però non si serve dell’Intelletto o Mente per spiegare l’ordine delle cose e ricorre invece agli elementi naturali, a meno che non si trovi in imbarazzo ed allora ricorre al Nous come un deus ex machina
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Democrito di Abdera

atomi



Democrito di Abdera (nato verso il 460 a.C.) fu discepolo di Leucippo, fondatore della scuola atomistica, che però soverchiò a tal punto il maestro che i posteri giunsero persino a mettere in dubbio che Leucippo fosse mai esistito.


Democrito parla di atomi , termine che in greco significa "non divisibili" (a-tomos). Gli atomi sono l’essere e quindi hanno tutte le caratteristiche dell’essere : sono cioè unità indivisibili, ingenerabili, incorruttibili, eterni, non percepibili dai sensi ma dalla ragione. La loro esistenza è nel vuoto che consente loro di distinguersi uno dall’altro e di muoversi. Limitato dal vuoto, ogni atomo ha una certa grandezza, una certa figura, posizione e un certo rapporto d’ordine con gli altri atomi. Per queste caratteristiche, ogni atomo è quello che è e differisce dagli altri. I fenomeni sono aggregati di atomi e le differenze tra i fenomeni sono determinate dalle infinite combinazioni di atomi. Quindi anche gli aspetti qualitativi delle cose debbono essere intesi come causati da aggregazioni atomiche. Ma se l’insieme degli atomi è l’essere, allora il vuoto, che consente il loro aggregarsi e disgregarsi, è il non-essere, per cui l’atomismo, per giustificare molteplicità e divenire, è costretto ad affermare che il non-essere è
.

Con Democrito la filosofia afferma così di voler praticare una via diversa da quella di Parmenide. In ambito etico, Democrito è fautore di un’etica del dovere basata sul rispetto verso se stesso e gli altri; del cosmopolitismo e del riconoscimento del valore dello Stato
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Piatagora di Samo

il corpo prigione dell'anima



Pitagora di Samo (571-496 a.C.) fondò a Crotone la sua scuola.
La sola dottrina che gli possiamo attribuire con certezza è quella della metempsicosi cioè della trasmigrazione dell’anima, dopo la morte, in altri corpi. Il corpo è "la prigione dell’anima" e dunque noi dobbiamo sfuggire alle influenze negative del corpo per mezzo di riti di purificazione.
La filosofia può contribuire a liberare l’anima dalle influenze negative del corpo. La scuola vedeva in Pitagora il depositario di una sapienza misteriosa e divina e quindi il maestro non poteva essere contraddetto (ipse dixit).


I Pitagorici sono ritenuti i creatori della matematica come scienza: essi consideravano il numero come l’essenza delle cose. Se le cose sono fatte di numeri, il mondo è una sorta di ordine misurabile. L’uno è il parimpari ed è indivisibile (non esiste ancora lo zero); il numero dieci rappresenta la perfezione ed è rappresentato dalla figura della Tetratide (un triangolo con il lato di quattro punti). Vi è insomma un simbolismo legato ai numeri. I Pitagorici affermano la sfericità della Terra e dei corpi celesti. Al centro dell’universo c’è un fuoco che ordina e plasma la materia circostante, dando origine al mondo. Intorno a questo fuoco si muovono, da occidente a oriente, dieci corpi celesti: il cielo delle stelle fisse, i cinque pianeti (Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere), il Sole, la Luna, la Terra e l’anti-Terra (ammessa per completare fino a dieci). Si ricordi che con Aristarco di Samo (3° sec. a.C.), filosofo peripatetico, l’ipotesi pitagorica fu modificata mettendo al posto del fuoco, come centro dell’universo, il Sole
.

I discepoli di Pitagora erano divisi in due gruppi: vi erano quelli appena entrati, gli acusmatici, che ascoltavano le dottrine; e vi erano quelli già iniziati ai misteri, chiamati matematici.


PARTE SECONDA: I SOFISTI




I Sofisti (dalla parola sophistés, che vuol dire "colui che fa professione di sapienza") sono attivi nel mondo greco tra la metà e la fine del 5° sec. a.C.


Essi sono portatori di una profonda rivoluzione culturale poiché concentrano sull'uomo i loro interessi: essi non accettano più la sacralità delle tradizioni e sciolgono così il legame tra l'uomo e il cosmo, che tutta la riflessione filosofica precedente aveva avuto cura di mantenere.
Con loro si ha anche una svolta importante nella concezione dell'educazione: non basta più conoscere Omero, Esiodo, Solone, né avere pratica di una singola attività.



Occorre rendere l'uomo, per mezzo di una formazione culturale nuova, capace di dominare i suoi simili con l'intelligenza, con una superiore abilità: ecco dunque il ricorso a tecniche retoriche ed eristiche (ragionamenti sottili e speciosi), come i sofismi, per persuadere o dimostrare qualunque cosa. Si tratta ormai di far passare il discorso più debole a quello più forte, cioè far passare l'opinione meno utile e dannosa ad opinione più utile e sana.


Infatti che cos'è una legge? Per i Sofisti è l'opinione della polis, cioè l'opinione condivisa dalla maggioranza che si può far passare da peggiore a migliore, guidandola e plasmandola a seconda delle circostanze. In altri termini, il potere politico è di chi sa conquistarselo nell'assemblea con l'abilità personale, la bravura oratoria, l'intuizione nelle scelte politiche.
I Sofisti propongono quindi loro stessi come i maestri adatti a formare una nuova classe politica in possesso di tali capacità.


Essi erano naturalmente spregiudicati e chiedevano un pagamento per le loro prestazioni. .
Essi infatti sono i maestri dei nuovi ricchi di Atene, di quella classe di artigiani e commercianti che sta sempre più formando il nucleo politico portante della città.



E' chiaro, da quanto accennato, che le tesi dei Sofisti misero in crisi la polis ed i suoi fondamenti etici e politici. Il dibattito che ne seguì ci è stato tramandato come il problema del rapporto tra la natura e la legge, tra la physis e il nomos.

Nei poemi omerici la legge aveva origine divina e carattere orale; l'autorità del re era politica e religiosa insieme. Le ordinanze regali, tramandate da padre in figlio, costituiscono nel corso delle generazioni il corpo di un diritto sacro.


A partire dal 7° sec. a.C. si ha una prima, fondamentale innovazione: le leggi vengono scritte e rese pubbliche.
I grandi legislatori (ad es. Solone ad Atene nel 594 a.C.) raccolgono il diritto, tramandato oralmente, in codici scritti: nasce così il nomos, la legge scritta. Col diritto scritto, la legge si installa nella polis e ne diviene l'anima stessa. Nel nomos si esprimono la volontà ed il potere della polis, e subentra il vincolo comune della obbedienza alla legge.


Nei Sofisti invece il nomos, come la verità in Protagora, perde ogni garanzia di validità universale. In Protagora stesso la questione del fondamento delle leggi era risolta in rapporto alla polis.
Era la polis stessa a fornire il criterio di demarcazione tra il giusto e l'ingiusto: "Quali cose a ogni città sembrino giuste e belle, queste sono tali per essa, fintanto che tali le creda". In Protagora la convenzionalità del nomos non impedisce che, solo nell'ordine della legge, si realizzi una possibilità di convivenza specificamente umana.

Ma la visione di Protagora non apparirà più sostenibile quando arriverà al potere un'altra classe politica, più rozza ed ignorante, che segnerà l'allontanamento dalla polis dello stesso Protagora.

Con la nuova generazione di Sofisti, attiva a partire dalla seconda metà del 5° sec. a.C., vi sarà la contrapposizione esplicita fra natura e legge. Ne abbiamo un ricordo in alcune opere platoniche, come la Repubblica e il Gorgia. Platone fa pronunciare ad un certo Trasimaco (retore del 5° sec.) una lezione di crudo realismo politico. La giustizia - fa dire Trasimaco - non è altro che l'utile del più forte. La legge insomma legalizza la sopraffazione.
Ma non basta: Platone fa dire ad un altro intervenuto, l'aristocratico Crizia, che non solo la legge ma anche la religione è una creazione completamente umana e mera funzione del potere.


Leggi e divinità non sono altro che gli strumenti inventati dal legislatore per costruire l'inganno capace di ridurre ad ordine, attraverso la punizione e la paura, una natura umana, priva, in sé stessa, di ogni moralità e socialità. Non meno radicale il punto di vista di Callicle, figura centrale del Gorgia. Per Callicle, le leggi, le convenzioni, i valori morali sono invenzioni dei deboli - la maggioranza - per impedire ai pochi, ai forti, di realizzare la superiorità che li caratterizza per natura. Infatti la natura mostra, in ogni sua manifestazione, che i migliori prevalgono ed i peggiori soccombono. Ma i migliori sono coloro che si mostrano capaci di soddisfare passioni e desideri, di aderire alla natura e di vivere secondo le sue leggi, spezzando le catene imposte dalle convinzioni. Se la natura deve comandare, in questo comando è però iscritta la superiorità di alcuni, non è l'eguaglianza di tutti.


I problemi "scottanti" che abbiamo delineato non saranno facilmente né in breve tempo risolti. Bisognerà aspettare le tre grandi figure dei due secoli seguenti - Socrate, Platone, e Aristotele - per impostare e risolvere su basi diverse le problematiche che furono affrontate con profondità e spregiudicatezza dai Sofisti del 5° sec. a.C.



Protagora di Abdera
Per Protagora l'uomo è misura di tutte le cose



Protagora di Abdera

Al tema della verità dedicò un'opera Protagora di Abdera (akmé nella 84° Olimpiade, 444-41 a.C.), ma di essa oggi abbiamo solo più dei frammenti. Uno di questi afferma:
"L'uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono" (cfr. la discussione a riguardo nel Teeteto di Platone, 151-152).


La novità della sua concezione consiste nello stretto rapporto che istituisce tra verità ed esperienza.
Ciò comporta anzitutto che la nozione di verità perda il suo significato magico e sacrale che possedeva tradizionalmente: il terreno su cui si cerca la verità è ora quello, interamente umano, della polis, del pubblico dibattito e del rapporto politico ed educativo. In secondo luogo, la verità non è vista come un sapere assoluto, unico per tutti, ma risulta relativa alla prospettiva e al campo di attività degli uomini: ecco il relativismo della sua celebre frase.


Così l'uomo non può conoscere tutto ma soltanto quello che cade nell'orizzonte della sua percezione e della sua azione. Si spezza quindi anche il legame con gli dèi: giacché l'uomo non può avere esperienze del divino, in quanto ciò non rientra nell'ambito delle sue possibilità conoscitive, egli non può dir nulla né sulla esistenza di Dio né sulle caratteristiche (da qui l'agnosticismo di un altro famoso frammento:

"Degli dèi non sono in grado di sapere né se sono né se non sono né quali sono, molte infatti sono le difficoltà che si frappongono: la grande oscurità della cosa e la limitatezza della vita umana").

Infine, nella prospettiva di Protagora, la verità risulta vincolata alla prassi, all'azione, per cui è vero ciò che risulta, di volta in volta, più utile ed efficace. In altre parole, l'uomo non è più in grado di stabilire il contenuto di verità dei discorsi (di ogni cosa non si può dire infatti il contrario?) ed allora come fare a scegliere una alternativa? Può appunto giudicarne la validità in base al grado di utilità e, soprattutto, di universalità. Se non è più possibile discriminare in assoluto tra discorsi veri e falsi, sarà però possibile elaborarne di sempre più ampi e comprensivi, che rispecchino i punti di vista della comunità, superando e mediando le opinioni particolari.



Gorgia di Lentini
Lentini, città di Gorgia, si trovava in Sicilia, allora Magna Grecia



Gorgia di Lentini (in Sicilia, 483-380 a. C.)


sostenne, in una sua famosissima opera dal titolo polemico di Sul non essere o sulla natura (contro Melisso di Samo che aveva scritto un Sulla natura ovvero sull’essere) tre tesi paradossali:
- nulla esiste;
- se anche qualcosa esistesse non sarebbe conoscibile da parte dell’uomo;
- se anche qualcosa fosse conoscibile non sarebbe comunicabile agli altri
.

Egli pretende di dimostrare il primo punto dicendo che, se qualcosa esiste, o esiste o non esiste o esiste e non esiste contemporaneamente. Ora, poiché quest’ultima affermazione è contraddittoria, va subito scartata; la seconda viene ugualmente scartata perché non ha senso dire che "qualcosa esiste non esistendo".

Rimane la prima affermazione secondo la quale se qualcosa esiste, esiste.
Orbene, secondo Gorgia, neppure questa affermazione è vera perché ciò che esiste o è eterno, o è generato o è contemporaneamente eterno e generato.

Anche questa volta l’ultima affermazione viene subito esclusa per la sua contraddittorietà.


La prima viene confutata dicendo che ciò che esiste non può essere eterno perché ciò che è eterno non ha un principio; se non ha un principio è infinito; se è infinito non è in nessun luogo; e se non si trova in nessun luogo, non esiste. Ma neppure ciò che esiste può essere generato perché, se è stato generato, è nato da ciò che esiste o da ciò che non esiste. Non può però essere nato da ciò che non è perché ciò che non esiste non può generare; ma non può essere nato neppure da ciò che è perché, in quanto è ciò che è, non è stato generato ma è di già.



In quanto alla seconda tesi, è chiaro che ciò che è pensato non è: infatti, se ciò che si pensa è, allora tutto ciò che si pensa è, in qualunque modo lo si pensi, il che è assurdo (se uno pensa ad un uomo che vola non per questo subito un uomo vola).



Infine, nella terza tesi, Gorgia sostiene che la parola non coincide con le cose realmente esistenti; quindi noi indichiamo al vicino non le cose reali ma la parola, la quale è diversa dalle cose che sono.


Gorgia ha insomma staccato definitivamente le parole dalle cose e quindi il linguaggio dalla realtà. Le parole, d’ora in poi, non sono più cose e neppure le cose sono più parole.
Il discorso non "morde" più il reale ed infatti di ogni cosa – come diceva già Protagora – può essere detto tutto e il contrario di tutto. Con Gorgia è andato perduto il criterio di verità di una affermazione. O meglio, l’unica verità consisterà nella capacità di produrre effetti sugli uomini. Il parlare avrà il suo vertice nell’arte della retorica ossia nella capacità del linguaggio di sedurre e persuadere. Vi è quindi l’abbandono della verità per ottenere la potenza sulle cose. La realtà viene dominata perché, grazie alla persuasione, è prodotta dalle parole.




Primaflora, il saggio dalla doppia personalità
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