I PRIMI FILOSOFI
I primi filosofi
Terra, aria, acqua e fuoco: gli antichi principi della natura
Talete di Mileto
Per Talete l'acqua è il principio di tutte le cose
La sua akmè fu fissata nel 585 a.C. dal cronologo Apollodoro (150 a.C.), il quale, per fissare le date prendeva come punto di riferimento l'impresa maggiore di un pensatore e la faceva coincidere col 40° anno di vita: l’impresa ritenuta più grande di Talete fu la predizione di una eclisse di Sole avvenuta appunto nel 585 a.C.
Secondo quanto ci racconta Aristotele, per primo affermò l'esistenza di un principio (a proposito, la parola principio è di Anassimandro) universale, causa di tutte le cose che sono, e disse che questo principio è l'acqua.
L'acqua di Talete vuole essere del tutto diversa dall'Oceano mitico di Omero perché essa è intesa come l'identità del diverso (ossia ciò che vi è di identico in ognuna delle diverse cose), il principio da cui provengono e in cui ritornano tutte le cose, come appunto l'acqua del mare che è tanto ciò che tutte le onde hanno di identico, quanto ciò da cui le onde provengono e in cui tornano
.
La superiorità di Talete rispetto alla visione mitologica sta nell'orizzonte che la sua domanda dischiude, non tanto nella risposta che dà, visto che essendo l’acqua una tra le molte cose, non potrebbe essere quello che tutte le cose hanno di identico. Di lui ci sono tramandate altre imprese e alcuni aneddoti, che ci vengono riferiti, tra gli altri, da Diogene Laerzio (cfr. I, 22-44).
Anassimandro
Per Anassimandro l'à-peiron è il principio di tutte le cose
Dopo Talete, Anassimandro (nato verso il 610 a.C.) considera come arché l'a-peiron, cioè il non-limitato, il non-finito, il non-particolare, il non-misurabile.
Il "progresso", rispetto al precedente, consiste nel fatto che definire l'arché come una cosa, quale è l'acqua, sarebbe limitare il principio; e siccome tutte le cose sono limitate, il principio da cui esse derivano non potrà che essere non-limitato, apeiron appunto.
Apeiron per Anassimandro è ciò che sfugge al numero, alla misura, al limite, per cui vi sono due ordini di cose: da un lato l’ordine dell’apeiron, che contiene ogni opposizione e, così contenendo, si pone quasi come originaria unità degli opposti; dall’altro l’ordine del tempo, dove ogni cosa si presenta come una "prevaricazione" sulle altre, che si incaricano di farle pagare il "fio" della sua "ingiustizia", dissolvendola e facendola tornare nell’unità originaria dell’apeiron. Così ad esempio il giorno sopraggiunge prevaricando la notte, la quale si dissolve ma da cui sarà poi dissolto
.
Anassimandro viene ricordato anche per essere stato tra i primi ad aver elaborato una carta geografica del mondo allora conosciuto (la Terra era da lui concepita come un cilindro sospeso nel vuoto) ed aver inventato un orologio solare
.
Anassimene
Secondo Anassimene è l'aria il principio del mondo
Anassimene (fiorì verso il 546-45 a.C.) conferirà una qualche positività al principio che Anassimandro aveva connotato in termini solo negativi. Per lui dunque l'arché è l'aria: l'aria è l'apeiron che, rarefacendosi e condensandosi, dà origine a tutte le cose.
Egli porterà alla luce un concetto decisivo per lo sviluppo ulteriore del pensiero greco: il concetto di causa (aitìa). Il mondo greco usava quella parola in senso morale, infatti indicava la colpa.
Con Anassimene la nozione di causa entra in un contesto che oggi diremmo scientifico, per cui le categorie di colpa e di pena cedono a quelle di causa ed effetto, così decisive nel modo occidentale di pensare. Anche l'arché non è più solo la sostanza di cui le cose sono fatte, ma sarà il principio della azione, cioè diventerà la causa efficiente (come la chiamerà molto più tardi Aristotele) che determina la trasformazione delle cose. Parlando di rarefazione e condensazione, Anassimene è ora in grado di spiegare la differenza qualitativa tra le cose, a partire dalla differenza quantitativa del principio originario
.
Eraclito di Efeso
Per Eraclito il fuoco è il simbolo del divenire
Eraclito di Efeso (6°-5° sec. a.C.) è l’autore di frammenti conosciutissimi: "non si può discendere due volte nello stesso fiume"(fr. B 91); "noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo"(fr. B 49) ecc.
Il senso dovrebbe essere abbastanza chiaro: il fiume è sempre lo stesso ma non sono sempre le stesse le acque che lo percorrono, così come chi si immerge in momenti diversi non è più lo stesso.
Ma la filosofia di Eraclito non si riduce alla semplice dichiarazione del flusso universale delle cose, del "tutto scorre" (panta rei), scorge nel divenire gli opposti entro cui lo stesso divenire accade :
"Le cose fredde si riscaldano, le cose calde si raffreddano"(fr. B 126).
L’identità delle cose viene colta nella opposizione come tale, la quale consente alle cose di diversificarsi dalle altre, trovando appunto in questa diversificazione la loro identità.
In questo senso il conflitto, la guerra (pólemos) in cui ogni cosa consiste e da cui è generata, può ben dirsi
"madre di tutte le cose e di tutte regina"(fr. B 53).
Ciò che le cose hanno di identico è la contrapposizione stessa di ogni cosa alle altre; ciò che hanno in comune è quella contesa, che consente ad ogni cosa di essere ciò che è. Infatti, se la vita non si opponesse alla morte, il caldo al freddo ecc., non esisterebbe vita, caldo ecc. Ed è per questo che Eraclito può dire che l’opposizione è il principio stesso della armonia nascosta presente in tutte le cose. Se dunque le cose hanno realtà in quanto divengono, e se il divenire è dato dagli opposti che, contrastandosi, si pacificano in superiore armonia, nella sintesi degli opposti sta quel principio che spiega tutta la realtà e che Eraclito chiama "Dio". In un altro frammento, Eraclito scrive che
"questo mondo, che è lo stesso per tutti, nessuno degli dèi o degli uomini l’ha creato, ma sempre fu, è e sarà fuoco eternamente vivo che con ordine regolare si accende e con ordine regolare si spegne"(fr. B 30).
Il fuoco di cui parla Eraclito è un’espressione che dice le caratteristiche del perenne divenire, dell’opposizione e dell’armonia. Il fuoco diventa la metafora dell’Uno inteso come quella dinamica unità per cui
"da tutte le cose l’Uno e dall’Uno tutte le cose"(fr. B 10).
Questa è la legge che il logos, la parola che ha in vista la verità e non le opinioni degli uomini, enuncia.
Il Logos è la parola che si offre all’ascolto di tutti, ma i più non la sentono perché "come dormienti" si concedono alle loro opinioni private che, come "giochi di fanciulli", lasciano fuori dalla verità delle cose. Nel loro sogno, i più non comprendono che il contrasto tra le cose è la stessa condizione della loro armonia.
Il filosofo dice cose vere perché sta in ascolto del Logos, a differenza di coloro che conoscono un gran numero di cose ma non la legge che le governa
Parmenide di Elea
Rovine greche
Parmenide di Elea (fine del 6° sec. a.C.) occupa una posizione centrale, insieme ad Eraclito, tra i filosofi presocratici.
Egli scrisse un poema denominato genericamente Sulla natura di cui possediamo 154 versi. In esso Parmenide parla di diverse vie per attingere alla verità.
La via della verità è tracciata dal principio che dice: l’essere è, e non può non essere. Se l’essere è, non può essere generato, né andare distrutto, perché altrimenti prima di essere generato e dopo essere distrutto, non sarebbe, e affermare che l’essere non è, è proibito dalla verità. Quindi l’essere è immutabile ed eterno e la Giustizia proibisce che in qualsiasi modo divenga. L’essere è dunque ciò che è identico in ogni cosa che è; è ciò che opponendosi al nulla, esprime il significato supremo dell’opposizione e, per effetto dell’opposizione, si costituisce come unità
.
Si tratta di una unità che non ospita né il divenire delle cose, né la loro molteplicità. Dire infatti che una cosa diviene significa dire che passa dall’essere al non-essere, e quindi significa affermare che il non-essere è. La convinzione che il divenire e il molteplice esistono è l’opinione illusoria (doxa) dei mortali, da cui la dea, che invita a percorrere il sentiero del giorno, la via della verità, tiene lontani.
L’essere di Parmenide è indifferenziato, indeterminato, semplice e puro, mentre il mondo che ci sta dinanzi nella sua incessante mutazione e varietà è doxa, ossia apparenza illusoria in cui i mortali pongono fiducia. Con Parmenide la filosofia si presenta come sfida al comune modo di pensare degli uomini e, contrapponendo la via della verità (aletheia) alla verità dell’opinione (doxa) apre quella antitesi fra ragione ed esperienza che altri tenteranno di risolvere
.
Empedocle di Agrigento
I quattro elementi di Empedocle: terra, aria, acqua e fuoco
Epedocle di Agrigento (490-430 a.C.) è il primo pensatore che cerca di risolvere l’antitesi aperta da Parmenide.
Nascita e morte sono per lui mescolanza e dissoluzione di determinate sostanze che sono ingenerate e indistruttibili e quindi che permangono eternamente uguali. Queste sostanze sono quattro: acqua, terra, aria e fuoco, ed Empedocle le chiama "radici di tutte le cose". Empedocle inoltre chiama Amicizia la forza che tiene unite le quattro radici, e Contesa la forza che separa le une dalle altre radici producendo il divenire cosmico
.
Con Empedocle diventa esplicita la nozione di elemento (stoicheion), inteso come qualcosa di originario e qualitativamente immutabile che produce la molteplicità delle cose col suo diverso modo di combinarsi e separarsi dagli altri elementi, altrettanto immutabili nelle loro qualità.
Empedocle ritiene che il divenire dell’universo sia ciclico, una sorta di eterno ritorno che culmina ad un estremo col caos (tutte le cose sono confuse) e dall’altro con lo sfero, in cui tutte le cose sono armonizzate
.
Anassagora di Clazomene
Rovine greche
Anassagora di Clazomene (nato verso il 500 a.C.)
ritiene che di nessuna cosa si possa dire che nasca o muoia, ma solo che si compone e si separa. Non solo, ma poiché un ente può diventare qualsiasi altro ente (ad es. il cibo diventa carne, e la carne, con la morte, diventa acqua e terra), in ogni ente vi è già tutto ciò che esso può diventare, e quindi in ogni ente vi è il tutto
.
Gli elementi non sono per Anassagora solo le quattro radici, bensì tutte le cose presenti in ogni cosa, sotto forma di particelle invisibili che egli chiama semi (spermata), e che Aristotele tramanderà col nome di omeomerie in quanto sono simili al tutto che costituiscono.
La differenza tra le cose è determinata dal prevalere dei semi di un certo tipo rispetto ad altri tipi. Spiegata la molteplicità con la prevalenza di omeomerie dello stesso tipo, Anassagora spiega il divenire come dispersione e ricomposizione delle unioni di omeomerie.
Quando le omeomerie si raccolgono sono visibili ai nostri sensi, quando invece si disperdono, si sottraggono alla visione
.
A presiedere la composizione e scomposizione delle omeomerie Anassagora pone una Mente (Nous) che è l’unico ente in cui non vi è mescolanza e, per questa sua purezza, può conoscere e dominare il tutto.
Anassagora però non si serve dell’Intelletto o Mente per spiegare l’ordine delle cose e ricorre invece agli elementi naturali, a meno che non si trovi in imbarazzo ed allora ricorre al Nous come un deus ex machina
.
Democrito di Abdera
atomi
Democrito di Abdera (nato verso il 460 a.C.) fu discepolo di Leucippo, fondatore della scuola atomistica, che però soverchiò a tal punto il maestro che i posteri giunsero persino a mettere in dubbio che Leucippo fosse mai esistito.
Democrito parla di atomi , termine che in greco significa "non divisibili" (a-tomos). Gli atomi sono l’essere e quindi hanno tutte le caratteristiche dell’essere : sono cioè unità indivisibili, ingenerabili, incorruttibili, eterni, non percepibili dai sensi ma dalla ragione. La loro esistenza è nel vuoto che consente loro di distinguersi uno dall’altro e di muoversi. Limitato dal vuoto, ogni atomo ha una certa grandezza, una certa figura, posizione e un certo rapporto d’ordine con gli altri atomi. Per queste caratteristiche, ogni atomo è quello che è e differisce dagli altri. I fenomeni sono aggregati di atomi e le differenze tra i fenomeni sono determinate dalle infinite combinazioni di atomi. Quindi anche gli aspetti qualitativi delle cose debbono essere intesi come causati da aggregazioni atomiche. Ma se l’insieme degli atomi è l’essere, allora il vuoto, che consente il loro aggregarsi e disgregarsi, è il non-essere, per cui l’atomismo, per giustificare molteplicità e divenire, è costretto ad affermare che il non-essere è
.
Con Democrito la filosofia afferma così di voler praticare una via diversa da quella di Parmenide. In ambito etico, Democrito è fautore di un’etica del dovere basata sul rispetto verso se stesso e gli altri; del cosmopolitismo e del riconoscimento del valore dello Stato
.
Piatagora di Samo
il corpo prigione dell'anima
Pitagora di Samo (571-496 a.C.) fondò a Crotone la sua scuola.
La sola dottrina che gli possiamo attribuire con certezza è quella della metempsicosi cioè della trasmigrazione dell’anima, dopo la morte, in altri corpi. Il corpo è "la prigione dell’anima" e dunque noi dobbiamo sfuggire alle influenze negative del corpo per mezzo di riti di purificazione.
La filosofia può contribuire a liberare l’anima dalle influenze negative del corpo. La scuola vedeva in Pitagora il depositario di una sapienza misteriosa e divina e quindi il maestro non poteva essere contraddetto (ipse dixit).
I Pitagorici sono ritenuti i creatori della matematica come scienza: essi consideravano il numero come l’essenza delle cose. Se le cose sono fatte di numeri, il mondo è una sorta di ordine misurabile. L’uno è il parimpari ed è indivisibile (non esiste ancora lo zero); il numero dieci rappresenta la perfezione ed è rappresentato dalla figura della Tetratide (un triangolo con il lato di quattro punti). Vi è insomma un simbolismo legato ai numeri. I Pitagorici affermano la sfericità della Terra e dei corpi celesti. Al centro dell’universo c’è un fuoco che ordina e plasma la materia circostante, dando origine al mondo. Intorno a questo fuoco si muovono, da occidente a oriente, dieci corpi celesti: il cielo delle stelle fisse, i cinque pianeti (Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere), il Sole, la Luna, la Terra e l’anti-Terra (ammessa per completare fino a dieci). Si ricordi che con Aristarco di Samo (3° sec. a.C.), filosofo peripatetico, l’ipotesi pitagorica fu modificata mettendo al posto del fuoco, come centro dell’universo, il Sole
.
I discepoli di Pitagora erano divisi in due gruppi: vi erano quelli appena entrati, gli acusmatici, che ascoltavano le dottrine; e vi erano quelli già iniziati ai misteri, chiamati matematici.
PARTE SECONDA: I SOFISTI
I Sofisti (dalla parola sophistés, che vuol dire "colui che fa professione di sapienza") sono attivi nel mondo greco tra la metà e la fine del 5° sec. a.C.
Essi sono portatori di una profonda rivoluzione culturale poiché concentrano sull'uomo i loro interessi: essi non accettano più la sacralità delle tradizioni e sciolgono così il legame tra l'uomo e il cosmo, che tutta la riflessione filosofica precedente aveva avuto cura di mantenere.
Con loro si ha anche una svolta importante nella concezione dell'educazione: non basta più conoscere Omero, Esiodo, Solone, né avere pratica di una singola attività.
Occorre rendere l'uomo, per mezzo di una formazione culturale nuova, capace di dominare i suoi simili con l'intelligenza, con una superiore abilità: ecco dunque il ricorso a tecniche retoriche ed eristiche (ragionamenti sottili e speciosi), come i sofismi, per persuadere o dimostrare qualunque cosa. Si tratta ormai di far passare il discorso più debole a quello più forte, cioè far passare l'opinione meno utile e dannosa ad opinione più utile e sana.
Infatti che cos'è una legge? Per i Sofisti è l'opinione della polis, cioè l'opinione condivisa dalla maggioranza che si può far passare da peggiore a migliore, guidandola e plasmandola a seconda delle circostanze. In altri termini, il potere politico è di chi sa conquistarselo nell'assemblea con l'abilità personale, la bravura oratoria, l'intuizione nelle scelte politiche.
I Sofisti propongono quindi loro stessi come i maestri adatti a formare una nuova classe politica in possesso di tali capacità.
Essi erano naturalmente spregiudicati e chiedevano un pagamento per le loro prestazioni. .
Essi infatti sono i maestri dei nuovi ricchi di Atene, di quella classe di artigiani e commercianti che sta sempre più formando il nucleo politico portante della città.
E' chiaro, da quanto accennato, che le tesi dei Sofisti misero in crisi la polis ed i suoi fondamenti etici e politici. Il dibattito che ne seguì ci è stato tramandato come il problema del rapporto tra la natura e la legge, tra la physis e il nomos.
Nei poemi omerici la legge aveva origine divina e carattere orale; l'autorità del re era politica e religiosa insieme. Le ordinanze regali, tramandate da padre in figlio, costituiscono nel corso delle generazioni il corpo di un diritto sacro.
A partire dal 7° sec. a.C. si ha una prima, fondamentale innovazione: le leggi vengono scritte e rese pubbliche.
I grandi legislatori (ad es. Solone ad Atene nel 594 a.C.) raccolgono il diritto, tramandato oralmente, in codici scritti: nasce così il nomos, la legge scritta. Col diritto scritto, la legge si installa nella polis e ne diviene l'anima stessa. Nel nomos si esprimono la volontà ed il potere della polis, e subentra il vincolo comune della obbedienza alla legge.
Nei Sofisti invece il nomos, come la verità in Protagora, perde ogni garanzia di validità universale. In Protagora stesso la questione del fondamento delle leggi era risolta in rapporto alla polis.
Era la polis stessa a fornire il criterio di demarcazione tra il giusto e l'ingiusto: "Quali cose a ogni città sembrino giuste e belle, queste sono tali per essa, fintanto che tali le creda". In Protagora la convenzionalità del nomos non impedisce che, solo nell'ordine della legge, si realizzi una possibilità di convivenza specificamente umana.
Ma la visione di Protagora non apparirà più sostenibile quando arriverà al potere un'altra classe politica, più rozza ed ignorante, che segnerà l'allontanamento dalla polis dello stesso Protagora.
Con la nuova generazione di Sofisti, attiva a partire dalla seconda metà del 5° sec. a.C., vi sarà la contrapposizione esplicita fra natura e legge. Ne abbiamo un ricordo in alcune opere platoniche, come la Repubblica e il Gorgia. Platone fa pronunciare ad un certo Trasimaco (retore del 5° sec.) una lezione di crudo realismo politico. La giustizia - fa dire Trasimaco - non è altro che l'utile del più forte. La legge insomma legalizza la sopraffazione.
Ma non basta: Platone fa dire ad un altro intervenuto, l'aristocratico Crizia, che non solo la legge ma anche la religione è una creazione completamente umana e mera funzione del potere.
Leggi e divinità non sono altro che gli strumenti inventati dal legislatore per costruire l'inganno capace di ridurre ad ordine, attraverso la punizione e la paura, una natura umana, priva, in sé stessa, di ogni moralità e socialità. Non meno radicale il punto di vista di Callicle, figura centrale del Gorgia. Per Callicle, le leggi, le convenzioni, i valori morali sono invenzioni dei deboli - la maggioranza - per impedire ai pochi, ai forti, di realizzare la superiorità che li caratterizza per natura. Infatti la natura mostra, in ogni sua manifestazione, che i migliori prevalgono ed i peggiori soccombono. Ma i migliori sono coloro che si mostrano capaci di soddisfare passioni e desideri, di aderire alla natura e di vivere secondo le sue leggi, spezzando le catene imposte dalle convinzioni. Se la natura deve comandare, in questo comando è però iscritta la superiorità di alcuni, non è l'eguaglianza di tutti.
I problemi "scottanti" che abbiamo delineato non saranno facilmente né in breve tempo risolti. Bisognerà aspettare le tre grandi figure dei due secoli seguenti - Socrate, Platone, e Aristotele - per impostare e risolvere su basi diverse le problematiche che furono affrontate con profondità e spregiudicatezza dai Sofisti del 5° sec. a.C.
Protagora di Abdera
Per Protagora l'uomo è misura di tutte le cose
Protagora di Abdera
Al tema della verità dedicò un'opera Protagora di Abdera (akmé nella 84° Olimpiade, 444-41 a.C.), ma di essa oggi abbiamo solo più dei frammenti. Uno di questi afferma:
"L'uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono" (cfr. la discussione a riguardo nel Teeteto di Platone, 151-152).
La novità della sua concezione consiste nello stretto rapporto che istituisce tra verità ed esperienza.
Ciò comporta anzitutto che la nozione di verità perda il suo significato magico e sacrale che possedeva tradizionalmente: il terreno su cui si cerca la verità è ora quello, interamente umano, della polis, del pubblico dibattito e del rapporto politico ed educativo. In secondo luogo, la verità non è vista come un sapere assoluto, unico per tutti, ma risulta relativa alla prospettiva e al campo di attività degli uomini: ecco il relativismo della sua celebre frase.
Così l'uomo non può conoscere tutto ma soltanto quello che cade nell'orizzonte della sua percezione e della sua azione. Si spezza quindi anche il legame con gli dèi: giacché l'uomo non può avere esperienze del divino, in quanto ciò non rientra nell'ambito delle sue possibilità conoscitive, egli non può dir nulla né sulla esistenza di Dio né sulle caratteristiche (da qui l'agnosticismo di un altro famoso frammento:
"Degli dèi non sono in grado di sapere né se sono né se non sono né quali sono, molte infatti sono le difficoltà che si frappongono: la grande oscurità della cosa e la limitatezza della vita umana").
Infine, nella prospettiva di Protagora, la verità risulta vincolata alla prassi, all'azione, per cui è vero ciò che risulta, di volta in volta, più utile ed efficace. In altre parole, l'uomo non è più in grado di stabilire il contenuto di verità dei discorsi (di ogni cosa non si può dire infatti il contrario?) ed allora come fare a scegliere una alternativa? Può appunto giudicarne la validità in base al grado di utilità e, soprattutto, di universalità. Se non è più possibile discriminare in assoluto tra discorsi veri e falsi, sarà però possibile elaborarne di sempre più ampi e comprensivi, che rispecchino i punti di vista della comunità, superando e mediando le opinioni particolari.
Gorgia di Lentini
Lentini, città di Gorgia, si trovava in Sicilia, allora Magna Grecia
Gorgia di Lentini (in Sicilia, 483-380 a. C.)
sostenne, in una sua famosissima opera dal titolo polemico di Sul non essere o sulla natura (contro Melisso di Samo che aveva scritto un Sulla natura ovvero sull’essere) tre tesi paradossali:
- nulla esiste;
- se anche qualcosa esistesse non sarebbe conoscibile da parte dell’uomo;
- se anche qualcosa fosse conoscibile non sarebbe comunicabile agli altri
.
Egli pretende di dimostrare il primo punto dicendo che, se qualcosa esiste, o esiste o non esiste o esiste e non esiste contemporaneamente. Ora, poiché quest’ultima affermazione è contraddittoria, va subito scartata; la seconda viene ugualmente scartata perché non ha senso dire che "qualcosa esiste non esistendo".
Rimane la prima affermazione secondo la quale se qualcosa esiste, esiste.
Orbene, secondo Gorgia, neppure questa affermazione è vera perché ciò che esiste o è eterno, o è generato o è contemporaneamente eterno e generato.
Anche questa volta l’ultima affermazione viene subito esclusa per la sua contraddittorietà.
La prima viene confutata dicendo che ciò che esiste non può essere eterno perché ciò che è eterno non ha un principio; se non ha un principio è infinito; se è infinito non è in nessun luogo; e se non si trova in nessun luogo, non esiste. Ma neppure ciò che esiste può essere generato perché, se è stato generato, è nato da ciò che esiste o da ciò che non esiste. Non può però essere nato da ciò che non è perché ciò che non esiste non può generare; ma non può essere nato neppure da ciò che è perché, in quanto è ciò che è, non è stato generato ma è di già.
In quanto alla seconda tesi, è chiaro che ciò che è pensato non è: infatti, se ciò che si pensa è, allora tutto ciò che si pensa è, in qualunque modo lo si pensi, il che è assurdo (se uno pensa ad un uomo che vola non per questo subito un uomo vola).
Infine, nella terza tesi, Gorgia sostiene che la parola non coincide con le cose realmente esistenti; quindi noi indichiamo al vicino non le cose reali ma la parola, la quale è diversa dalle cose che sono.
Gorgia ha insomma staccato definitivamente le parole dalle cose e quindi il linguaggio dalla realtà. Le parole, d’ora in poi, non sono più cose e neppure le cose sono più parole.
Il discorso non "morde" più il reale ed infatti di ogni cosa – come diceva già Protagora – può essere detto tutto e il contrario di tutto. Con Gorgia è andato perduto il criterio di verità di una affermazione. O meglio, l’unica verità consisterà nella capacità di produrre effetti sugli uomini. Il parlare avrà il suo vertice nell’arte della retorica ossia nella capacità del linguaggio di sedurre e persuadere. Vi è quindi l’abbandono della verità per ottenere la potenza sulle cose. La realtà viene dominata perché, grazie alla persuasione, è prodotta dalle parole.
Primaflora, il saggio dalla doppia personalità